La mia situazione era seria, occorreva decidere in fretta. Rimanere era
per me ormai rischioso ovunque, soprattutto se veramente quella valigia
era finita in mano agli ex ribelli. Non potevo partire così all'improvviso
senza avere provveduto a sistemare le mie cose personali. Soldi non ne
avevo abbastanza per garantirmi una certa tranquillità perché
avevo acquistato l'appartamento, la macchina e in parte li avevo messi
a disposizione per aiutare qualche amico, specialmente Antonio. Erano
soldi che mi avrebbe restituito, certo, ma che al momento non potevo disporre.
Cercai di vendere l'auto per una cifra irrisoria, ma tanti altri cercavano
di fare la stessa cosa e al prezzo di un televisore si potevano comprare
tre mercedes nuove, tutti volevano vendere e nessuno comperava. Decisi
dunque di abbandonare l'auto nei pressi dell'aeroporto. Ad Hassi Messoud
vi era una succursale della mia banca, vi ritirai i miei pochi soldi e
presi l'aereo per Parigi.
Scendendo
dall'aereo mi sembrava di essere arrivato in Alaska, malgrado fossimo
in agosto il contrasto di clima era veramente grande. Fortunatamente avevo
un golfino con me. Mi diressi verso il centro dove presi in affitto una
stanzetta di un piccolo hotel a Palais Royal. Ormai non avevo altra scelta
che ricominciare tutto da zero. Rimpiangevo anche di aver scelto Parigi
come meta dove la vita era carissima, gli alloggi in affitto introvabili
e il clima pessimo. Avrei fatto meglio a dirigermi verso la costa, ma
oramai non potevo permettermi di spendere altri soldi per cercarmi un
posto migliore. Avrei avuto bisogno di vestiti più pesanti, di
una stanzetta in cui potermi fare da mangiare, ma prima di tutto dovevo
trovare un posto di lavoro.
Ricominciai a leggere gli annunci economici sui quotidiani cercando dapprima
un posto come autista, poi, vedendo le difficoltà riscontrate,
cercai un posto qualsiasi. Le stesse difficoltà incontrate ad Algeri
si ripresentavano lì. In primo luogo perché ero straniero,
secondariamente perché venivo dall'Algeria, e i "piedi neri”
in Francia non erano molto apprezzati. E ancora perché ero stato
nella Legione, perché non avevo la residenza in Francia e perché
i miei documenti algerini non erano validi. Perciò se avessi trovavo
un datore di lavoro disposto ad assumermi, esigeva un certificato di residenza,
ma per averlo occorreva dimostrare di avere un lavoro. Bella situazione
la mia, per trovare un lavoro mi sarebbe stato più facile se fossi
stato cittadino francese o anche italiano, ma ora non ero più ne
l'uno ne l'altro. In Italia ero inoltre ricercato con mandato di cattura
per non essermi presentato alla chiamata al servizio di leva.
Anche in Francia non ero gradito e mi rigettavano come una vecchia ciabatta,
dopo avermi usato non servivo più. E dire che avrei dovuto avere
gli stessi diritti di qualunque cittadino francese.
Pensare che in Algeria ce l'avevo fatta ad inserirmi, mi sentivo soddisfatto
degli sforzi fatti nel Deserto perché ero riuscito a diventare
una persona come tante, con una casa, una sicurezza finanziaria che andava
via via consolidandosi. E' bello sentirsi come gli altri, ci si sente
tranquilli quando si sa di avere un conticino in banca. Invece rieccomi
nuovamente in preda a quella disagevole sensazione di "messa al bando"
e di inferiorità. Rieccomi ancora attanagliato dall'angoscia per
il presente e per quello che potrà essere il futuro, con quel solito
senso di solitudine e di indescrivibile freddo interno.
Ero ormai ridotto al verde e già da una diecina di giorni facevo
la spola tra un datore di lavoro disposto ad assumermi a patto che gli
presentassi un certificato di residenza e la Prefettura, che prima di
farmelo esigeva quello del lavoro. Non so per quanto tempo ancora avrebbero
continuato a rimandarmi dall'uno all'altro come una palla da ping-pong,
se il datore di lavoro non si fosse deciso di correre qualche rischio
ponendosi contro legge e procurarmi un certificato di lavoro col quale,
dopo ore di fila negli uffici stranieri della prefettura, mi inscrissero
all'anagrafe.
La società
che mi assunse era un'impresa di lavori pubblici; mi affidarono un grosso
camion e iniziai subito a lavorare per settantamila franchi mensili e
alloggiato in una delle tante baracche in legno riservate ai trenta autisti
e manovali della ditta.
Le baracche, tutte attaccate l'una all'altra, erano situate in un grande
cortile dove la sera parcheggiavamo anche i camion.
Avevo sì un lavoro ma ero completamente in bolletta e non sapevo
come fare per arrivare fino alla prima quindicina del mese. I miei colleghi,
tutti francesi non apprezzavano molto il mio accento straniero, soprattutto
da quando erano venuti a sapere che ero al verde, mi giravano alla larga
al solo vedermi per timore che gli chiedessi una sigaretta. Ottenni, dopo
alcune richieste, un piccolo anticipo sulla paga dal principale, solo
quel tantino che bastava per comperami un fornello elettrico e qualcosa
per farmi da mangiare.
Fine novembre "62. L'inverno si preannunciava molto rigido, la brina
ricopriva i campi attorno e fino a mezzogiorno era un freddo molto intenso.
Avevo già riscosso qualche quindicina ma non mi ero rimesso in
sesto, i pochi soldi che avevo preso erano bastati appena per il mangiare
e le sigarette. Non avevo ancora potuto vestirmi adeguatamente nemmeno
per il lavoro. La domenica lavavo i miei panni nell'acqua gelida e li
stendevo nella piccola cameretta senza riscaldamento di due metri per
tre, nella quale il lettino da campo rappresentava tutto il mobilio.
Per tirare avanti andavo quando potevo, in un campo vicino a raccogliere
erbe ricoperte di gelo che credo fossero spinaci, e la sera impiegavo
delle ore per farle bollire sul fornellino elettrico, erbe che spesso
costituivano tutta la mia cena.
Ai primi di dicembre mi trovai un'altro posto d'autista con la speranza
che fosse migliore o che almeno l'ambiente fosse diverso. Dovevo fare
la linea tra Parigi e Mont Ginevra con un piccolo furgone. Il principale
era un ebreo possedeva una fabbrica di scarpe a Milano e una a Parigi,
dove aveva anche un deposito di stoccaggio per la merce. Le scarpe provenienti
da Milano le vendeva in parte nei suoi negozi sparsi qua e là e
in parte la spediva all'estero o in altre zone della Francia.
Il salario era più o meno equivalente al precedente ma il lavoro
mi piaceva di più. Come alloggio il principale mi offrì
una stanza a Boulogne in una vecchia casa abbandonata in attesa di essere
demolita. Nella nuova stanza in cui vivevo vi era già installato
Jean Claude, un negretto di sedici anni della Guadalupe, anch'egli al
servizio di Tuìll, il principale, come magazziniere per diciassettemila
franchi mensili.
La stanza come del resto tutta la casa, era completamente spoglia, con
le finestre sgangherate e senza vetri. Solo un rubinetto sbucava da una
parete a circa un metro dal suolo.
Dormivamo su due brandine da campo barcollanti che ci aveva prestato Tuìll.
Io avevo solo una vecchia coperta per ripararmi dal freddo della notte.
Andavo a Mont Ginevra una volta la settimana col furgone citroen partendo
al mattino verso le quattro per essere a Briancòn verso le undici
di sera dove passavo la notte a riposare sul furgone per recarmi poi al
mattino a Mont Ginevra. Lì aspettavo alla dogana che arrivasse
il camion da Milano con le scarpe per fare il trasloco della merce. Al
ritorno mi fermavo a Grenoble per fare le diverse spedizioni in Francia
e all'estero, per poi fare ritorno col rimanente a Parigi.
Le statistiche dicevano che da quarant'anni non faceva così freddo
in Francia. Abituato com'ero al caldo tremendo del Sahara, dovevo ora
sopportare quel freddo siberiano. Partivo spesso verso la frontiera con
le strade ricoperte di neve e da Grenoble cominciavo a risalire le Alpi
per una stradicciola tutta in salita e ricoperta da uno spesso strato
di ghiaccio e fiancheggiata da molti burroni. Ero anche senza catene,
visto che per Tuìll era una spesa inutile.
Il lavoro mi piaceva ma la paga era molto bassa, e il principale andava
via via dimostrandosi sempre più tirchio ed esigente. Non solo
voleva che con la mia piccola paga mi pagassi tutte le spese di viaggio,
ma pretendeva che rispondessi io a tutte le eventuali rotture e ai guasti
al furgone. Inoltre mi controllava il consumo del combustibile col contagocce.
Se protestavo mi diceva che dovevo essergli riconoscente dell'alloggio
che mi aveva dato grazie al quale risparmiavo un mucchio di soldi. Naturalmente
non mi pagava le numerose ore notturne che facevo durante i viaggi e nemmeno
quelle lavorate al deposito merci dove mi fermavo fino alle ventitré
quando non viaggiavo. Anzi, a fine mese cercava sempre qualche pretesto
per trattenere dalla già misera paga qualche soldo, lamentandosi
del modo in cui la mano d’opera era sempre troppo esigente, e maledicendo
il Governo che costringeva i poveri proprietari a dare tanti soldi a gente
che non lavorava abbastanza pretendendo in cambio sproporzionati salari.
Per questo non riusciva mai ad avere un lavoratore fisso. Anche le segretarie
ne cambiava una al mese perché volevano fare solo otto ore al giorno
rifiutandosi di farne altrettante per il bene della ditta. Il solo impiegato
contabile che da anni lavorava con lui era anch'esso ebreo. Lavorava molte
ore e con molta assiduità, non so se avesse qualche interesse particolare
nella ditta, ma so solo che era sempre in accordo con Tuìll per
sbagliare i conti sui fogli paga.
Tuìll era solo da poco in Francia, proveniva dalla Libia dov'era
abituato a pagare la manodopera con molte sgridate e pochi soldi, e non
voleva rendersi conto che in Europa era diverso. Costretto a dare il minimo
salario prefissato dai sindacati, cercava di rifarsi facendoli lavorare
il doppio.
Non voleva capire che pagandoli poco rendevano poco, anche per il fatto
che nessuno rimaneva con lui per più di un mese e ai nuovi arrivati
occorreva un certo periodo per impratichirsi nel lavoro e nessuno era
disposto a lavorare il doppio delle ore pagate per avere in più,
sempre da ridire sul totale della busta paga. Tutto questo avevo cercato
di dirglielo un giorno ma inutilmente. Ero stanco anch'io di lavorare
per lui in quelle condizioni e contavo di piantarlo per un'altro lavoro,
aspettavo solo di passare quel terribile inverno.
Non avevo certo fatto un bell'affare lasciare la ditta di lavori pubblici
dov'ero prima, mi ero lasciato lusingare dal lavoro più attraente
e dal desiderio di abbandonare quella triste baracca gelida, quei sornioni
di colleghi che mi evitavano. Ma dalla padella ero finito sulle brace.
D'altronde le imprese in cui era più facile trovare lavoro erano
proprio quelle meno buone perché lì, a causa del malcontento
c’era più riciclo di personale.
Eravamo
vicini a Natale e la temperatura era da parecchio tempo sotto zero. Con
Claude avevo cercato di tappare le finestre della nostra stanza usando
dei vecchi giornali, ma senza ottenere risultati. Quando rientravamo assieme
la sera, malgrado l'ora tarda ci facevamo un po’ di minestra su
un piccolo fornello ad alcool, o della pasta condita solo con un po’
di estratto di pomodoro. Quando il tempo, la voglia e i soldi ce lo permettevano,
quel po’ che si mangiava era a carico mio perché Claude col
suo stipendio non poteva certo viverci. Mi sono sempre chiesto come se
la sarebbe cavata da solo. Mentre preparavo qualcosa di caldo per noi
due al buio, lui si coricava vicino al fornello e mi parlava con nostalgia
della sua Guadalupe dove il clima era sempre dolce, le ragazze sempre
desiderose di fare all'amore e la vita semplice si svolgeva lieta con
o senza denaro tramite i frutti che la terra produceva anche senza lavoro,
tramite la pesca e la caccia. Ma i "bianchi " gli avevano inculcato
la mania dell'acquisto dell'auto, del frigo, o di altri prodotti del consumismo
moderno e per ottenerli, tentavano l'avventura dell'emigrazione attratti
dal mito dello sfarzo e dei facili guadagni di Parigi. Mentre parlava,
il suo viso nero appena rischiarato dalla tenue luce del fuocherello,
si stendeva in un sorriso mentre le nuvolette del suo fiato si perdevano
nel buio.
Ma era solo un miraggio ad attrarli in quest'Europa tiranna e razzista.
Parigi poi, aveva un fascino particolare per attrarre le masse negre che,
più numerose delle altre venivano segregate ed escluse dalla società
che li usava per i lavori più umili e meno ricompensati.
Non riuscivo a capire per quanto ci pensassi, come potevano quei giovani
lasciare le loro terre per venire lì ad ammassarsi in trenta o
quaranta nelle cantine e nelle cave, per dormire ammucchiati a terra,
mentre i proprietari li spolpavano senza pietà con affitti esosi.
Come dovevano tornare delusi ai loro paesi dopo una simile esperienza!.
Avevo
già scritto ad Antonio, rimasto ad Algeri, facendogli capire in
quale situazione mi trovavo. Siccome pareva non capire, gli spiegai con
l'ultima lettera che veramente mi trovavo nei guai e lo pregai di inviarmi
con urgenza almeno una parte dei soldi che gli avevo prestato, almeno
per passare un decente Natale. Con quella lettera ero certo che appena
l'avrebbe ricevuta si sarebbe precipitato a spedirmi un vaglia.
Non avevo mai patito tanto freddo in vita mia, dal rubinetto che spuntava
dalla parete del muro dove colava qualche goccia, si era formata una piramide
di ghiaccio che dal rubinetto arrivava fino a terra. Rientrando io e Claude,
cercavamo di raccogliere qualche vecchio giornale o quando eravamo fortunati
qualche pezzetto di legna da ardere sul pavimento stesso della stanza
prima di coricarci. Ma il fumo ammassato ci costringeva ad aprire le finestre.
Prima di Natale arrivò la risposta di Antonio, che però
non conteneva il vaglia.
Si limitava a dirmi che anche lui desiderava raggiungermi a Parigi con
la moglie e che solo dopo avrebbe affrontato la questione dei soldi. Nel
frattempo mi chiese di cercargli un alloggio con urgenza perché
gli arabi avevano già cercato di fargli la pelle e desiderava partire
al più presto.
Io aspettavo con tanta ansia che mi mandasse del denaro, almeno quel tanto
per passare le feste senza la preoccupazione del mangiare, ma la delusione
fu tale che gli risposi arrabbiato dicendogli che era ora che imparasse
a cavarsela da solo, che non volevo più aver a che fare con lui,
che gli regalavo quanto mi doveva, la macchina, i soldi, l'arredamento
dell'appartamento, a patto che non si fosse mai più fatto vedere.
E fu così, non lo vidi mai più e con lui persi anche la
segreta speranza di rivedere Anna Maria. Mi coricai quella sera più
triste del solito pensando per lunghe ore a lei, indifferente ai soliti
racconti di Claude che come sempre continuava con animosità a parlare
della sua terra natale.
Il giorno
di Natale "62 verso le dieci, io e Claude eravamo ancora accovacciati
sotto le coperte, non avevamo il coraggio di alzarci a causa del freddo
incombente. Dal letto guardavo attraverso gli strappi della carta che
ricopriva le finestre la neve cadere fitta tra le raffiche di vento. Qualche
spruzzata entrava di tanto in tanto nella stanza.
Claude accucciato sul vecchio materasso recuperato nelle immondizie, dormicchiava
ancora. “Claude, sei sveglio?" "Sì" rispose,
“Che facciamo, usciamo?". Saltammo giù dai letti e ci
vestimmo tremando. Se almeno avessimo una stufa e potessimo fare un po’
di caldo pensavo, potremmo stare dentro senza dover battere continuamente
i piedi per riscaldarli.
Uscimmo poco dopo, ma senza soldi senza sapere dove andare. Il vento penetrava
nelle ossa facendoci tremare. Arrivati ad un incrocio con una grande strada
restammo immobili senza sapere cosa fare mentre osservavamo in silenzio
la gente camminare frettolosa, avvolta nei panni caldi e pesanti, con
le mani ingombrate da pacchi o fiori.
In pochi facevano caso a noi, ma quei pochi ci guardavano con ripugnanza.
Ci guardavano come si guarda una mosca caduta nel bicchiere di latte che
si sta per bere. Certo non dovevamo avere un bell'aspetto, io vestito
da lavoro con un giacchettino estivo, sporco e mal ridotto, pallido con
le scarpe in agonia e la barba lunga. Jean Claude con la sua vecchia giacca
chiara a quadrettoni più spiegazzata della mia e troppo grande
per lui, i pantaloni malconci, non si presentava meglio. Ce ne stammo
lì fermi con le mani in tasca e tremanti sotto il peso del freddo
per qualche momento senza sapere dove dirigerci. Il viso del mio amico
era color cenere, mi guardò dicendo: “Che facciamo?"
"Bah” risposi, “vuoi che rientriamo? Almeno saremo protetti
dal vento e dalla neve, poi mi fa rabbia il modo in cui ci guarda la gente,
sembra che nei giorni di festa debba mostrarsi solo la gente che è
ben vestita". Rientrando, trovammo Tuill ad aspettarci, chissà,
pensai, in un giorno come questo forse ci invita a pranzo a casa sua.
Ma ci aspettava solo per dirci che nel pomeriggio dovevamo lavargli la
macchina.
Alla fine di febbraio diedi le mie dimissioni dalla ditta di Tuìll
a causa del salario insufficiente, e per non dover discutere ad ogni fine
mese, per farmi dare i soldi che per "errore" mancavano sempre
dalla busta paga. Nel sentire che me ne volevo andare, Tuìll andò
su tutte le furie. "Ma come?” imprecò, “anche
tu mi tradisci? Anche tu fai come i francesi, siete tutti uguali! Dopo
tutto quello che ho fatto per te! Dopo che ti ho alloggiato e trattato
come uno della famiglia! Non sarà una questione di paga spero”
e aggiunse con aria grave, “ Se è per quello, cinque o diecimila
franchi te li posso aumentare “Gli risposi che oltre alla paga c’erano
tante cose che mi disgustavano e che insomma avevo deciso di andarmene.
Non riuscendo a convincermi ne con le buone ne con le cattive, mi pregò
di non andarmene subito e di fare un'altro viaggio a Mont Ginevra per
dargli il tempo di cercarsi un'altro autista.
Accettai di fare il viaggio ma al mio ritorno l'altro autista non c’era.
Accettai pure dietro la sua insistenza di farne un'altro, poi un'altro
ancora, ma Tuìll non si decideva a trovarmi un sostituto. Alla
fine, stanco di farmi prendere per i fondelli da quell'ebreo, gli dissi
deciso di prepararmi il conto perché non intendevo più attendere.
Assistei ad nuova crisi di nervi di Tuìll che minacciò di
farmi pagare l'affitto dei mesi passati nella stanzetta, e di andare a
"parlare" all'ufficio degli emigranti stranieri. Al ché
gli risposi che a mia volta avrei denunciato quella sua fabbrica di scarpe
nascosta in centro dove facevano calzature di cartone sotto la pomposa
etichetta di "Made in Italy". Per un attimo sembrò volesse
sgozzarmi, poi finalmente si decise a dare l'ordine al contabile ebreo
di prepararmi il conto. Quando me lo consegnò mi accorsi che mancava
una parte della somma. Chiesi spiegazioni a Tuìll ma quello mi
disse con disprezzo di togliermi dai piedi.
Mi recai
alla Camera del Lavoro per farmi controllare il conto e quelli mi dissero
che in effetti mancavano ventiquattromila franchi. Riferii anche delle
numerose ore fatte di straordinario e mai pagate ma mi risposero che senza
prove non potevano farci nulla. Mi consegnarono comunque un bigliettino
da rimettere a Tuìll con l'ingiunzione di pagarmi il saldo, cosa
che fece insieme a parolacce, insulti, tuoni e fulmini, ordinando al contabile
di farmi un assegno che il giorno stesso andai ad incassare.
L'impiegato della banca, del Credit Lyonnais, quando fu il mio turno,
mi chiese come volevo scambiare i soldi. " Bèh” risposi
un po’ meravigliato, “mi dia due grossi e il resto piccoli".
Volevo dire, due da diecimila e il resto da mille. Il cassiere mi guardò
un po’ perplesso come se non avesse capito bene, poi tirò
fuori dalla cassaforte un bel mucchio di bigliettoni, tra cui due da centomila
franchi. Poi prese delle mazzette da diecimila che passava abilmente tra
l'indice e il pollice e iniziò a contare. Uno, due, tre, quattro
e metteva i pacchetti contati sotto al mio naso. Poi ricominciava: uno,
due, tre, quattro...Compresi subito che stava facendo un errore, ma di
che genere? Certamente aveva letto male il mio assegno, oppure avevo capito
male quando aveva chiamato il numero di turno? Mentre contava mi guardai
attorno ma pareva che nessuno dovesse venire a ritirare i soldi che il
cassiere stava contando. Ma allora tutto quel denaro sarebbe stato per
me?... Otto, nove, dieci e continuava ad ammucchiare i soldi davanti al
mio naso. Le costole si erano trasformate in un'incudine dove il cuore
batteva a martello, cosa fare? Avevo solo pochi secondi per decidere.
Allungando le mani per prenderli temevo di vedere il proprietario saltare
fuori per dirmi del ladro. Non è che tra un po’ ritiri tutto
dicendo tra una gran risata che è solo uno scherzo? Pensavo tra
me. Sette, otto, nove e dieci. “Non ha una borsa? Vuole un pezzo
di giornale?" Era giunto il momento di decidere, cosa fare? Era un
mucchio di soldi che spingeva verso di me e non dovevo che allungare le
mani per prenderli. Sarebbero finite le difficoltà, avrei potuto
fare tante cose con due milioni quattro centomila franchi, ma non avevo
mai fatto una cosa del genere. Malgrado tante esperienze ero rimasto quel
provinciale schietto e genuino di sempre, tuttavia ero tentato. Non so
che espressione avesse il mio viso, forse ero sudato, le mani in ogni
caso erano sudaticce. "Scusi” gli dissi”, è sicuro
di non essersi sbagliato?" “Sbagliato? Perché sbagliato?
Che genere di errore?" "Guardi meglio il mio assegno" continuai.
Riprese l'assegno che aveva già infilato nel chiodo con gli altri,
lo guardò bene, impallidì, lo rinfilò nel chiodo
e prettamente arraffò tutto il malloppo per rimetterlo subito in
cassaforte dietro il banco. Prese allora due miserabili biglietti da diecimila,
quattro da mille e me li porse davanti senza una parola, senza un grazie.
Era sconvolto, e lo ero anch’io.
Camminando lungo il Boulevads Des Italiens vedevo doppio. Mi accorsi di
avere le lacrime agl'occhi. Due milioni quattrocentomila franchi al posto
di ventiquattromila. Quello aveva letto la somma in cifre senza far caso
alla virgola, i nuovi franchi erano usciti da poco e la gente non vi aveva
ancora fatta l'abitudine.
A dare
un po’ di respiro alla mia disastrosa situazione economica fu la
decisione del Governo francese di risarcire una piccola parte dei beni
perduti in Algeria dai "piedi neri". Non mi fu possibile dimostrare
la perdita dell'appartamento con le tante altre cose, dato che le documentazioni
private e comunali erano andate distrutte, ma mi venne concessa una piccola
somma di denaro che mi permise di installarmi in una stanzetta di una
bettola chiamata pomposamente hotel, dove i topi erano più numerosi
degli inquilini.
Da tre
anni mi trovavo ormai a Parigi. Avevo trovato nel frattempo lavoro in
uno dei più grandi magazzini della capitale, il Bazar de l’Hotel
de Ville, prima come uomo di fatica poi come fattorino per le consegne
a domicilio con uno dei numerosi camion del centro commerciale. La paga
era di novantamila franchi al mese. Vivacchiavo spendendone quaranta per
la stanzetta all'hotel, senza permettermi due pasti al giorno perché
ognuno costava minimo mille franchi, perciò dovevo pranzare spesso
con un panino.
Dopo la perdita dei miei beni ad Algeri mi ci ero messo con tutta la buona
volontà possibile per ricominciare da zero, ma per quanto facessi
per riuscirvi non vedevo nessuna prospettiva di uscire dall'indigenza.
Anche Ferruccio era a Parigi e lavorava assieme a me. Lui era venuto via
dall'Algeria con qualche risparmio e si era installato in un appartamentino
con la moglie e i figli. Vivevano in ristrettezze, ma perlomeno formavano
una famiglia, avevano una casa, un piatto di minestra calda e due simpatici
maschietti.
Eravamo gli unici stranieri tra un centinaio di fattorini addetti alle
consegne del grande magazzino. La vita che ero costretto a condurre era
priva di qualsiasi soddisfazione, per non spendere non uscivo quasi mai,
se non per andare qualche volta a casa di Ferruccio dov'ero sempre ben
accolto. Tra i colleghi francesi non avevo un solo amico. Ci si salutava
al mattino prima di partire ciascuno col proprio camion pieno di merce
da consegnare, ma tutto finiva lì. Mi era difficile dunque inserirmi,
non solo nella società ma anche nella cerchia delle amicizie, con
i colleghi di lavoro, tra i quali sentivo un attrito razziale che ormai
conoscevo bene a Parigi.
E' difficile spiegare, se non si è provato, quanto sia penoso convivere
in ambienti dove si sente di essere mal tollerati. Come sia difficile
sopportare continue allusioni alla propria inferiorità, alla propria
razza, alla propria nazionalità. Come si possa soffrire senza che
nessuno usi violenza, umiliati senza che nessuno umili direttamente. Forse
coloro che hanno avuto la sfortuna di viverci possono capire, quando hanno
a che fare con uno straniero, anche i più umili tra loro si sentono
tutti dei piccoli padroni come se ci mantenessero a loro spese. Hanno
tutti una sorta di "complesso di superiorità", come se
ci facessero l'elemosina o ci salvassero a loro spese. Per questo in cambio
hanno il diritto ad umiliarci a loro piacimento trattandoci dall'alto
verso il basso e solo chi accetta le continue "punzecchiature"
è tollerato. Chi invece conserva un po’ di orgoglio per la
propria razza o per il proprio paese d'origine, chi osa ribattere o contraddirli
è mal sopportato. Questo era il mio caso, perché al contrario
di Ferruccio che col suo carattere più aperto e spigliato sapeva
farsi apprezzare, io covavo le ingiustizie come un macigno che mi si piantava
lì e non andava giù e rispondevo a tono a chiunque mi stuzzicava
senza rendermi conto di quanto, così facendo peggioravo le cose.
Certo sarebbe stato meglio evitare certe discussioni, ma per farlo bisognava
essere muti e sordi. Io che non ero ne l'uno ne l'altro, non riuscivo
sempre a tacere pur accorgendomi che ciò facendo mi isolavo sempre
più rinchiudendomi in uno sterile risentimento verso tutti, anche
verso quelli che più di altri mi tolleravano.
Da sei
anni ero ormai a Parigi ed avevo sempre vivacchiato stentando ad arrivare
ad ogni fine mese, a causa soprattutto dell'esagerato affitto che pagavo
per la stanzetta in cui alloggiavo; quando mi giunse la buona notizia
che mi era stato assegnato un appartamentino in una casa popolare di Creteil
nella periferia di Parigi. Nel palazzo appena finito di costruire fui
il primo a penetrarvi e prendere possesso del mio alloggio, composto da
una camera con soggiorno bagno e garage. Vi entrai con la mia valigetta
e per alcune ore me ne restai accovacciato a terra a contemplarlo. Da
tre anni ne avevo fatta la domanda, e finalmente mi era stato assegnato
in priorità come profugo d'Algeria.
L'affitto era di trentamila franchi al mese più le spese condominiali,
non erano pochi ma speravo di economizzare facendomi da mangiare io stesso.
Certo occorreva ammobigliarlo, anche se ero sempre in bolletta, mi serviva
un letto, un tavolo con delle sedie, un fornello e dei tegami. Dopo mille
conteggi e mille ripensamenti, decisi di correre il rischio e fare un
debito, pur sapendo che sarebbe stata dura e che avrei dovuto stringere
ancor più la cinghia. Acquistai il tutto al grande magazzino per
il quale lavoravo facendo un debito che mi trattenevano sulla busta paga
a ventimila franchi al mese, perciò non mi restavano per vivere
che settantamila franchi. Dai settanta dovevo detrarne trenta per l'affitto,
più cinque di spese condominiali, perciò ne restavano trentacinque
per viverci un mese. Anche evitando qualsiasi altra spesa avrei dovuto
cavarmela con poco più di mille franchi al giorno, il prezzo di
un biglietto del cinema. Quello era il risultato di sei anni di lavoro,
che dico, di tredici anni di pericoli e di duro lavoro. Ero al verde più
che mai, sempre solo come un eremita e per giunta con dei debiti. La mia
esistenza era insicura, dedicata solo alla sopravvivenza e senza prospettive
di un avvenire migliore. Il solo modo per uscirne sarebbe stato quello
di sposarmi con una ragazza che lavorasse, in due ci si poteva sistemare
meglio ed avere uno scopo da raggiungere più attraente, ma uscendo
raramente non avevo molte opportunità di fare delle conoscenze.
Dopo Anna Maria non avevo più trovato una ragazza che mi piacesse
veramente e non intendevo sposarmi solo per un calcolo economico.
Certo in sei anni non ero stato così isolato ed avevo conosciuto
malgrado tutto alcune ragazze. Françoise era disegnatrice pubblicitaria,
simpatica, intelligente, ma troppo grassa per piacermi veramente. Jioelle
studiava ancora, era bruna e carina. Sua madre era proprietaria di un
piccolo hotel ristorante nel quale avevo vissuto per un po’ e, caso
raro, non le dispiaceva affatto che uno straniero frequentasse sua figlia,
anzi, mi rimproverava gentilmente quando non ero regolarmente con lei.
Ma con Joelle non andavo molto d'accordo nei gusti e nelle opinioni.
Anche Nicole era bella. Era stata la segretaria di Tuìll solo per
una diecina di giorni, e in quei pochi giorni nacque tra noi una certa
simpatia. Mi invitava spesso in una stanzetta d'hotel che regolava lei,
per stare un po’ assieme. In principio tutto andava bene, poi, ogni
nostro incontro finiva con un mare di lacrime perché non accettavo
la convivenza; ma il fatto che fosse già accompagnata con un'altro,
che avesse un figlio, e che fosse alla continua ricerca di un uomo diverso
mi faceva indugiare. Pianse fino al giorno che ci lasciammo.
Con Maria invece, la servetta portoghese che conobbi facendo il fattorino,
avrei vissuto volentieri. Mi diceva un po’ in portoghese e un po’
in francese che voleva liberarsi del marito molto più vecchio di
lei che trovava il modo di picchiarla spesso malgrado fosse per metà
paralizzato. Eravamo d'accordo che sarebbe partita con me, non gli importava
dove pur di stare con me, ma una notte sentimmo un'auto fermarsi all'ingresso
della villetta dov'era a servizio, e guardando tra le persiane socchiuse
riconobbe il marito che all'improvviso, proprio quella notte arrivava
dal Portogallo, mi fece raccogliere frettolosamente la mia roba sparsa
qua e là per la stanza e mi farmi uscire da una porta di servizio.
Ritornai in seguito ma non la ritrovai mai più. I proprietari della
villetta erano sempre assenti perciò non ne ebbi più notizie.
Mi restò il sospetto che il marito si fosse accorto di qualche
cosa e che entrambi fossero ripartiti per il Portogallo.
Tali avventurette tuttavia non duravano mai molto, generalmente mi ritrovavo
nella mia solitudine con problemi che mi apparivano giganteschi e insolubili.
Ad aggravare la situazione mi era giunta per raccomandata la nota delle
tasse da pagare, un imprevisto che non avevo messo sul conto dei sacrifici.
Novantamila franchi che non potendo pagare mi trattenevano dalla busta
paga a quindicimila al mese. Era il colpo di grazia e con tutta la buona
volontà non potevo più cavarmela.
Sei anni di lavoro più cinque di Legione, più tre nel Sahara
per vedermi chiuso in una morsa che stava per stritolarmi. A cosa mi era
servito dedicare tutto me stesso al lavoro, ad economizzare ogni soldino,
a saltare tante volte i pasti se i sacrifici da fare aumentavano sempre
più?
Nella
solitudine, in quell'avvilimento che mi accompagnava da quando ero in
Francia, aumentava sempre più il rancore accumulato e un indefinito
desiderio di rivolta. Cominciavo a rendermi conto che non aveva senso
continuare in quel modo, anche se avessi voluto non mi sarebbe stato possibile,
ormai ero stretto alle corde, anche volendo cocciutamente continuare quella
vita da recluso non ce l'avrei mai fatta a vivere con ventimila franchi
al mese. Qualcosa si ribellava in me, basta con quella farsa! Dovevo fare
qualcosa per uscirne, dovevo reagire, fare anche qualcosa di poco pulito,
meglio rischiare la prigione che morire di fame. Non volevo più
farmi succhiare il sangue da imbroglioni e prepotenti. A che serviva potersi
vantare di essere onesti per farsi spremere da tutti. Per primi governanti
francesi che mi avevano imbrogliato dicendo che avrei avuto i pieni diritti
di qualsiasi francese, poi i datori di lavoro che mungevano sulla mia
già scarsa paga, infine la stangata delle tasse veniva ad abbattersi
come un macigno sul mio difficile cammino. Se si doveva vivere in un mondo
di ladri tanto valeva rubare come loro.
Un tavolo, un frigorifero, un letto non pagati, ecco il frutto di tredici
anni di sacrifici e di pericoli. Ma c'era un limite di sopportazione a
tutto ed ero deciso a reagire, dovevo aggrapparmi ad un appiglio per non
sprofondare nella melma in cui ero stato cacciato.
L'ultima volta che ero andato da Ferruccio avevamo parlato della nostra
situazione e di un progetto per lavorare assieme per conto nostro. L'
idea ci aveva entusiasmati, anche Daniela sua moglie, ne era convinta.
Il progetto era di installare a Nizza, durante la stagione estiva, una
o due bancarelle per vendere bevande e panini. Ferruccio era uno specialista
in materia siccome aveva sempre lavorato nei bar in Italia e conosceva
delle specialità poco conosciute in Francia. Con tali prodotti
era impossibile fallire. Sarebbe stato veramente bello lavorare insieme
autonomamente e abbandonare il grigiore di Parigi. C’erano però
due ostacoli da superare: primo agli stranieri non rilasciavano licenze
commerciali, secondo eravamo entrambi in bolletta. Al primo problema pensammo
di rimediare intestando tutto a Daniela che era francese, mentre al secondo,
mi offrì di incaricarmene personalmente dal momento che non avevo
famiglia e potevo correre qualche rischio.
Calcolammo che cinquecentomila franchi fosse il minimo indispensabile
per il trasferimento, per i documenti e per una iniziale precaria installazione.
Ci eravamo lasciati con questi propositi pieni di speranza. La riuscita
del progetto dipendeva ormai solo da me, ed ero deciso a fare di tutto
per trovare il mezzo milione mancante, anche se non sapevo bene come.
Parigi era piena di gente che cercava mezzo milione, gente più
esperta di me in quelle cose, in più non mi restava molto tempo
per agire perché eravamo in dicembre e tutto doveva essere pronto
per i primi di aprile.
Cominciai licenziandomi dalla ditta per cui lavoravo, tra la liquidazione
e le ferie racimolai qualche denaro. Ma anche dopo il saldo del debito
mi restavano circa duecento cinquantamila franchi e tanto per cominciare
avevo già metà della somma convenuta, restava da saldare
il debito delle tasse ma ero ben contento che non avessero più
l'opportunità di trattenermele dalla busta paga.
La fortuna pareva assistermi perché anche senza commettere delle
irregolarità potevo riuscire a trovare la somma onestamente, infatti
trovai subito un'altro lavoro. Mi si offrivano solo ottantamila franchi
mensili per fare l'autista con un camion in Parigi per un piccolo artigiano
di Boulogne, ma mi si offriva inoltre l'occasione di fare molte ore di
straordinario e in tre mesi avrei potuto completare la somma mancante.
Decisi dunque di rimboccarmi le maniche e lavorare non meno di sedici
ore al giorno; naturalmente quella mia instancabile energia nel lavoro
soddisfaceva molto il principale che mi colmava di complimenti, anche
troppi direi. Quindici giorni dopo, insospettito da tanta bonomia nei
miei riguardi, gli chiesi se mi avrebbe pagato le ore straordinarie, al
ché mi rispose: "Ma caro mio, quando si fanno certi mestieri
non si può guardare a qualche minuto di lavoro in più"."
Qualche minuto no” gli risposi, “Più di cento ore in
quindici giorni non sono qualche minuto, comunque se non intende pagarmele
mi prepari il conto perché me ne vado". Nel conto che mi presentò
oltre a non avermi pagato nemmeno un'ora di straordinario, mancavano pure
dei soldi per le ore regolari e per vendicarsi si rifiutò anche
di rilasciarmi un certificato di lavoro al quale avevo diritto.
Andai a fare esaminare i conti dall'Ispettorato dei trasporti pubblici
e l'Ispettore stesso, dopo aver eseguito il controllo telefonò
alla ditta: “Allò?, l'impresa X? Senta, ho qui una persona
che ha lavorato per lei e dice di non aver ricevuto il conto esatto del
licenziamento, cos'è questa storia?"
Ero abbastanza vicino al telefono per sentire nel silenzio dell'ufficio
buona parte di ciò che gli veniva risposto. “Ma sa”
gli risposero dalla ditta, “era un autista da poco....Ma lei chi
è?" "Sono l'ispettore dell'ufficio trasporti e non mi
interessa affatto che il suo dipendente fosse o no un bravo autista, a
quanto ammonta il salario mensile che gli date?” “Ma gli avevamo
promesso settantamila franchi se andava bene ma...."Feci segno all'Ispettore
che non era vero. “Ma lo sa” riprese l'Ispettore, “che
il salario minimo di base è di ottantamila e non settanta?"
Dall'altra parte del filo tacquero. "Inoltre questo signore dice
di aver fatto parecchie ore di straordinario, vogliamo provare a fare
meglio i conti?”. Stentavano a negare, anche per timore che io avessi
dei testimoni. “Ma voi avete esposto la tabella degli orari di lavoro?
Continuò l'Ispettore, “sentite prima che venga a fare un
controllo nella vostra ditta per vedere un po’ come stanno le cose,
rifate il conto a questo ragazzo, siamo intesi?." "Può
darsi che ci siamo sbagliati, ce lo mandi pure, gli daremo il mancante”
risposero.
Accidenti pensai, esiste dunque una giustizia anche per noi? Per fortuna
capita anche di trovare delle persone impeccabili. Ma alla ditta mi diedero
solo lo stretto necessario che mancava per legge, delle ore straordinarie
non ne vollero sapere.
Intascai i soldi e me ne andai amareggiato, anche per il fatto che era
svanita l'unica speranza di arrivare a racimolare in tempo il mezzo milione
e non sapevo più come fare.
Durante
quei pochi giorni di lavoro avevo conosciuto in un bar vicino alla ditta
dove andavo a mangiare un panino a mezzogiorno, un certo Maridjean, un
giovane iugoslavo che faceva l'imbianchino, che come me navigava in cattive
acque. Viveva in una stanzetta d'hotel con due connazionali i quali non
avevano ancora trovato una sistemazione e vivacchiavano tutti sul piccolo
stipendio. Pagava anche la stanza d'hotel, i due coinquilini lo assecondavano
con qualche provvista alimentare che sottraevano ai grandi magazzini.
Uno si chiamava Sasca, era sulla trentina e diceva di essere un disegnatore
industriale. L'altro un po’ più anziano si faceva chiamare
Dedè, alto, taciturno e forte come un toro. Maridjean era il solo
che parlava un po’ il francese, io lo chiamavo Mario tanto per facilitare.
Con Mario parlavamo sempre dei nostri reciproci guai ma non sapevamo come
uscirne. Invece di racimolare più soldi, i miei diminuivano ogni
giorno, avevo perso ormai ogni speranza di ottenere la somma voluta, ma
anche la possibilità di rifarmi una vita dignitosa lavorando, allora
decisi di rischiare il tutto per tutto.
Mi recai in un quartiere malfamato di Pigalle e trovai il modo di acquistare
per cinquantamila franchi una carta d'identità al nome di un certo
Boruso di nazionalità tunisina, più o meno della mia età
e statura. La mia foto apparve sul documento al posto di quella di Boruso,
poi mi recai in una banca ad aprire un conto corrente col nome del falso
documento dando all'impiegato della banca un indirizzo falso, nel quale
indirizzo avevo piazzato una cassetta per la posta. Poi ripresi contatto
con gli iugoslavi e gli esposi il mio progetto. Mi occorrevano degli assegni
di qualche persona benestante e la sua firma, anche su un qualsiasi pezzo
di carta. Avrei poi pensato io ad imitarla sugli assegni stessi dai quali
avremmo cercato di ricavarne una certa somma da trasferire sul conto di
Boruso e che avremmo poi diviso in due parti uguali. Gli iugoslavi apparvero
entusiasti, Sasca poi mi assicurò che da tempo un ricco pederasta
gli faceva il filo e sarebbe stato un gioco da ragazzi sottrargli qualche
assegno. Tutto pareva risolto per il meglio, e per completare l'accordo
decisi che ormai visto che eravamo soci, tanto valeva che fossero venuti
tutti ad abitare nel mio appartamento; tantopiù che dall'hotel
dov'erano, i tre stavano per essere messi alla porta perché da
alcuni giorni non pagavano più l'affitto.
E' incredibile come nella disperazione ci si possa aggrappare a qualsiasi
speranza. Fatto sta che mi trovai col mio appartamento trasformato in
dormitorio. Nella camera da letto dormivo io, mentre gli altri tre dormivano
in sala sul pavimento stesso. Per completare il tutto decisi di acquistare
con cinquantamila franchi d'acconto, un'auto usata che ne valeva trecento,
siccome lo spostarmi sempre a piedi rallentava considerevolmente il realizzarsi
dei nostri progetti. Ormai non mi restava che puntare tutto sulla speranza
degli assegni per potermi mettere con Ferruccio e ciò sembrava
già alla nostra portata, almeno così mi assicuravano gli
iugoslavi.
Ma una volta installati nel mio appartamento l'entusiasmo dei tre cominciò
a rilassarsi. Il ricco pederasta era in viaggio e bisognava attendere
il suo ritorno. Nei primi giorni sembravano pieni di idee, Sasca passava
il tempo a elaborare piani su piani fino a tarda notte, facendo progetti
su tutti i pezzi di carta che trovava in giro per poi stracciare tutto
e coricarsi a notte fonda dopo essersi scolato tutto il vino che c’era
in giro e aver fumato tutto il tempo come una ciminiera. Passati i primi
giorni, scomparve ogni entusiasmo e, come svuotati di ogni energia, sprofondarono
nell'inerzia più totale. Intanto passavano i giorni e io, abituato
al lavoro quotidiano, bruciavo dentro e cercavo di smuoverli dicendo loro
che così non si poteva andare avanti ancora a lungo, che mi restavano
appena i soldi per pagare l'ultimo affitto poi ci avrebbero scacciati,
che non c’erano più soldi per il cibo, anche se Sasca e Nenè
arrivavano di tanto in tanto con qualche scatolame rubato nei supermercati.
Mi ascoltavano con rassegnata pazienza e un po’ annoiati per i frequenti
rimproveri, rispondendomi che presto avrebbero dovuto incontrarsi con
un industriale e che dovevo solo pazientare ancora un po’.
Cominciavo a pensare che con quei tre non avrei combinato niente di buono,
che tutto mi sarebbe crollato addosso. Ad aggravare le cose Sasca ricevette
al fermo posta una lettera dalla Iugoslavia nella quale la sua ragazza
gli annunciava che sarebbe venuta a Parigi a trovarlo per sposarsi con
lui e ripartire.
Sasca mi pregò di riceverla in casa. Gli spiegai per l'ennesima
volta che eravamo nei pasticci e che dovevamo agire immediatamente, ma
egli mi supplicò di pazientare altri otto giorni durante i quali
la sua ragazza sarebbe rimasta a Parigi, e subito dopo si sarebbe dato
da fare con l'industriale o con qualsiasi altro per avere gli assegni.
Non mi restò altro da fare che aspettare.
Dusca, la sua ragazza, arrivò puntualmente con pochi soldi, ma
con diversi pacchi di cibarie e prese posto anch'essa nel mio appartamento.
In due giorni avevamo fatto fuori tutto quello che cera da mangiare, e
finite le provviste eravamo tutti senza viveri e senza un soldo.
Intuendo la nostra situazione la ragazza si preoccupò di sposarsi
in fretta per ripartire immediatamente, e siccome quello era anche il
nostro desiderio, con la poca benzina che rimaneva nel serbatoio della
macchina ci recammo tutti al Consolato Iugoslavo per le formalità
matrimoniali. Ci dissero però che per sposarli occorrevano cinquemila
franchi che nessuno di noi aveva e non sapevamo come trovare. Erano le
undici del mattino e il matrimonio era stato fissato per le sedici dello
stesso giorno.
Con gli ultimi cinquecento franchi di Dusca acquistammo un po’ di
benzina per la macchina ed iniziammo a fare il giro degli amici e connazionali
dei tre iugoslavi per trovare in prestito le poche migliaia di franchi,
ma uno solo di loro, ne sborsò mille cinquecento assicurandoli
che era tutto quello che possedeva, mentre un'altro, non avendo soldi,
regalò a Sasca l'ombrellino da sole della moglie dicendogli di
venderlo per completare la somma. Con l'ombrello ci recammo al "monte
di pietà” per impegnarlo ma lo rifiutarono. Dusca si sfilò
allora un anello dal dito che assieme ad una sua collana consegnò
per duemila franchi. Mancava solo un'ora alle sedici quando ci avviammo
verso il Consolato con tremilacinquecento franchi. Prima di entrare Sasca
scese dalla macchina e, fermatosi ad un incrocio si mise a offrire l'ombrello
ai passanti senza però riuscire a venderlo.
Arrivata l'ora del matrimonio ci recammo ugualmente dal Console il quale,
fortunatamente accettò di sposarli malgrado la somma mancante.
Al ritorno Dusca si compiacque di aver preso la precauzione di essersi
acquistata il biglietto di andata e ritorno, in modo che poté ripartire
senza tardare.
Chiuso l'episodio ritornammo ai nostri vecchi guai. Trascorsero altri
giorni senza che si sia combinato qualcosa. Dedè scompariva a volte
per giorni interi senza che si sapesse dove e cosa facesse. Mario e Sasca,
di tanto in tanto tornavano con le tasche piene di alimenti che avevano
"prelevato" ai grandi magazzini. Eravamo tutti alla disperazione
ma sembrava che io fossi l'unico a preoccuparmene. Quando potevamo mettere
un po’ di benzina nella macchina andavamo di sera alle "Halles",
il grande mercato ortofrutticolo di Parigi a raccogliere nei rifiuti qualche
cassetta di verdura andata a male e in quel modo arrivammo alla fine di
febbraio.
Dedè, dopo due giorni di assenza ricomparve nell'appartamento per
proporci di attaccare una persona che ogni venerdì andava in banca
a ritirare un mucchio di soldi, promettendo anche che avrebbe pensato
lui a tutto. Chiedeva soltanto che io lo accompagnassi con la macchina
e lo aspettassi nelle vicinanze, ma io, malgrado ormai non avessi più
nulla da perdere, non ne volli neanche sentire parlare. Tanto più
che quell'energumeno era capacissimo di ammazzare il malcapitato se questi
gli resisteva. Sasca invece, da tempo cercava di convincermi ad accompagnarlo
in auto in un paesino distante una cinquantina di chilometri da Parigi
per fare un furto in una tabaccheria che conosceva, dovevo solo accompagnarlo
e aspettarlo a distanza.
A questo punto eravamo arrivati, e mi assicurava che quello era il solo
mezzo per recuperare una certa somma con la quale organizzare quella degli
assegni. Ero disposto a tentare una truffa, ma mi ripugnava assolutamente
partecipare ad un furto.
Una sera però, mentre stavo dormendo, arrivarono in casa verso
le ventidue, Sasca, Mario e il biondino che gli aveva prestato i mille
cinquecento franchi e con insistenza mi convinsero ad accompagnarli in
quel paesino dove volevano fare il colpo nella tabaccheria. Avrebbero
fatto tutto loro, io dovevo solo accompagnarli e aspettarli ad una certa
distanza.
Ero veramente sul lastrico, di lì a poco mi avrebbero sfrattato,
ritirato la macchina.
Non avevo più il becco di un quattrino, non sapevo più dove
sbattere la testa. Insomma mi lasciai convincere. Utilizzammo una parte
dei cinquemila franchi che possedeva il biondino per un po’ di benzina,
poi entrammo in un bar per attendere l'ora propizia per agire. Mentre
aspettavamo, Sasca e il biondino facevano già mille progetti su
come spendere i soldi ricavati dal colpo e come vendere la refurtiva senza
destare sospetti, visto che pensavano di portare via tutto quello che
potevano. Io e Mario li ascoltavamo un po’ scettici, poiché
ci pareva prematuro fare tanti calcoli sul "dopo furto".
All'una ci avviammo verso il posto in questione. Con la macchina mi appostai
in una stradicciola buia alla periferia del paesino. I tre iugoslavi scesero
e si allontanarono nel buio dopo avermi raccomandato di tenermi pronto
al loro ritorno col motore acceso per partire in tromba.
Mi sentivo molto emozionato come prima di un combattimento alla Legione,
e nel silenzio notturno ascoltavo tutti i rumori sospetti preoccupato
e ansioso per ciò che stavamo facendo. Mai avrei immaginato di
arrivare a quel punto. Se solo riuscissi a cavarmi da questo impiccio
pensavo, mai più ritenterò una simile esperienza, ma se
li prendono? Se ci prendono tutti?
Solo dopo mezz'ora sentii dei passi affrettarsi sull'asfalto, misi in
moto, aprii le portiere della macchina e vidi gli iugoslavi che arrivavano
di corsa, salirono al volo mentre io partii a luci spente.
Quando chiesi a Mario cos'era successo, mi rispose ansimando che erano
riusciti ad entrare nella tabaccheria, ma appena dentro erano stati assaliti
da un grosso cane e non avevano potuto fare altro che darsela a gambe.
Così, dopo aver portato il biondino al suo hotel, rientrammo in
casa più squattrinati che mai.
Decisi di sbarazzarmi degli iugoslavi prima di commettere qualche stupidaggine
che avrebbe potuto costarmi cara. Ero in ritardo per pagare l'affitto
di casa e anche per le rate della macchina, per non parlare poi delle
bollette del gas, della luce e delle spese condominiali varie. Non avevo
un soldo in tasca e per mangiare restava in cucina solo una mezza cassetta
di verdura appassita in ricordo degli iugoslavi.
Non avevo neanche il coraggio di andare da Ferruccio per non dovergli
dire che invece di aver messo insieme la somma, ero riuscito solo a ficcarmi
nei pasticci. Il contrasto tra le speranze future di lavorare a Nizza
con lui e la realtà del presente era tale da procurarmi un senso
di dolore allo stomaco.
Più
che mai mi sembrava ormai difficile riuscirvi, ma dovevo sperare ancora,
fino all'ultimo filo di speranza.
Nel tentativo di riprendere un po’ la situazione in mano mi ero
rimesso a lavorare. Contemporaneamente esposi in una vetrina di un commerciante
nei "Grand Boulevard", un cartello con su scritto che cercavo
una persona con cui dividere il mio alloggio e relative spese d’affitto.
Tra le varie risposte ricevute scelsi quella di un certo Duscenne, impiegato
di media età che viveva solo in uno studio dal quale aveva ricevuto
lo sfratto per la demolizione del suo abitato. Optai per quella scelta
anche per il fatto che il Duscenne, lavorando come contabile presso una
ditta, poteva avere ottime possibilità di procurarmi gli assegni.
Al primo contatto con lui non ne ricavai una gran buona impressione; viveva
in una stanza sporca e maleodorante con un giovane algerino di diciotto
anni che mi presentò come suo figlio adottivo. Aveva una quarantina
d'anni, di statura media, grassotto e piuttosto mal concio per essere
un contabile e lavorare in una grande ditta, eppure i documenti che mi
mostrò non lasciavano dubbi riguardo alle sue dichiarazioni. Riuscii
a vincere le mie perplessità anche per il fatto che ormai solo
uno nella sua posizione poteva procurarmi gli assegni.
Così il Duscenne con l'inseparabile "figliolo” presero
posto nel soggiorno dove prima c’erano gli iugoslavi, ma mi accorsi
ben presto che i due, invece di recarsi al lavoro se ne stavano in casa
tutto il giorno senza preoccupazioni di sorta. Allarmato mi recai al loro
vecchio domicilio per chiedere informazioni sul loro conto, cosa che avrei
dovuto fare prima, e venni così a sapere che il Duscenne era quasi
sempre a spasso e che erano stati sfrattati dalla loro stanza perché
da tempo non pagavano più l'affitto. Seppi inoltre che il presunto
figlio era in realtà il suo amante, che oltre ad essere sempre
al verde, il Duscenne si ubriacava ogni volta che gli capitava qualche
soldo.
Più che contabile vivacchiava facendo il prestigiatore-chiromante
e praticava la magia nera, e a perditempo si faceva anche assumere di
tanto in tanto come contabile in ditte nelle quali non restava mai più
di otto giorni.
Guarda un po', mi dissi ritornando, con che merlo sono capitato, ma tutte
a me devono succedere? E pensare che speravo di essermi cavato dai guai,
ma se di tanto in tanto si fa assumere come contabile, gli lascio una
possibilità di procurarmi gli assegni, altrimenti lo rispedisco.
Effettivamente cominciai presto a constatare che Duscenne era un personaggio
misterioso. Se da una parte trasudava miseria da tutti i pori, dall’altra
aveva conoscenze ovunque, soprattutto tra i grandi della magia, tra personaggi
di antiche sette religiose. Anche a Creteil dove abitavo, in pochi giorni
aveva fatto la conoscenza di tutte le autorità del luogo, in particolare
con l'assistente sociale, con il gerente delle case popolari e con il
sindaco stesso. Aveva anche una gelosia morbosa per il suo algerino che
non mollava mai, e quando il "figliolo” cercava di scrollarsi
di dosso l'amante, questo, trascorreva ore e ore a pedinarlo e a spiarlo
per il timore che il giovane lo tradisse con qualche donna. Il ragazzo
superstizioso, era completamente soggiogato dalla personalità del
mago-contabile, ed era fermamente convinto di non poterlo lasciare per
timore delle sue facoltà telepatiche e delle sue capacità
nel propinargli il malocchio. Mi chiedeva di interferire per lui presso
Duscenne, di dirgli che lo lasciasse andare o per lo meno che lo lasciasse
uscire solo senza essere sempre perseguitato e spiato. Capivo quanto poteva
essere spiacevole per un giovane tirarsi dietro ovunque un quarantenne
che lo sorvegliava in continuazione, ma avevo ben altre gatte da pelare
che occuparmi della loro unità famigliare.
Inutilmente cercai di convincerlo che erano tutte balle e lo assicurai
che se a fine mese non avesse pagato la sua parte dell'affitto, gli avrei
fatto io il malocchio.
Stanco di averli per casa, mi decisi una sera a parlare con Duscenne spiegandogli
che se riusciva a portarmi a casa gli assegni avremmo diviso il ricavato.
Mi rispose che giustamente da tre giorni lavorava presso una ditta e che
gli sarebbe stato facile sottrarre dal blocchetto che era sempre sulla
scrivania qualche assegno.
Infatti fu di parola, mi procurò tre assegni con la firma del titolare
su una busta a parte. Finalmente era arrivato il momento e se tutto andava
bene potevo ancora partire con Ferruccio. Incollai il pezzetto di carta
con la firma strappato da una busta sotto una lastra di vetro rischiarata
dal basso da una grossa lampadina. Misi sopra al vetro un foglio di carta
dal quale traspariva la firma in modo soddisfacente e iniziai ad esercitarmi
nel ricalcarla fino ad arrivare a imitarla senza esitazioni in modo quasi
perfetto. Poi firmai gli assegni e li compilai a favore di Boruso, al
nome cioè della falsa carta d'identità in mio possesso,
per una cifra totale di circa un milione trecentomila franchi e li spedii
in banca in attesa che venissero trasferiti sul conto di Boruso.
Ormai era fatta, non mi restava che aspettare e andare di quando in quando
a controllare se nella cassetta da lettere piazzata all'indirizzo fasullo,
era arrivato l'avviso bancario dell'avvenuto trasferimento del soldi.
L'idea degli assegni piacque a Duscenne perché mentre aspettavo
il trasferimento dei soldi mi preparò una sorpresa. Da qualche
giorno vedevo al loro posto in sala, un'abbondante quantità di
bottiglie di liquori e vino con altrettanta abbondanza di cibarie e mi
chiedevo quale fonte prodigiosa avesse potuto scovare il mio ospite.
A darmene risposta fu un commerciante del vicinato che venne a chiedermi
informazioni circa un mio assegno che il Duscenne gli aveva rifilato in
cambio degli alimenti, per un ammontare di cinquantamila franchi e che
la banca non gli aveva pagato. Al momento gli dissi solo che Duscenne
era assente e che gli avrei chiesto spiegazioni al suo rientro, ma rimasto
solo andai a frugare in una mia valigia contenente tra l'altro dei vecchi
blocchetti di assegni e mi accorsi che in uno ne mancavano sei.
Ecco dunque spiegata la fonte di tanta abbondanza! Ero ancora lì
arrabbiato col blocchetto in mano quando lo sentì salire le scale,
gli corsi incontro gridando cos'era la storia dei miei assegni, cosa aveva
combinato con i commercianti della zona.
Non rispose, ma facendo un rapido dietro front, se ne scappò di
corsa senza che io, a piedi nudi potessi inseguirlo. L'algerino che saliva
con lui, rimase fermo a metà scala senza capire cos'era successo.
Non ero adirato con lui e lo invitai ad entrare mentre gli spiegavo ciò
che era accaduto. Gli dissi di prendere la loro roba e di andarsene per
sempre.
Il 4 aprile del "67, al termine della giornata lavorativa, andai
per la quarta volta al falso indirizzo che avevo dato alla banca per vedere
se nella cassetta a lettere vi fosse l'avviso dell'avvenuto trasferimento
dei soldi, non senza prendere qualche precauzione, come del resto ero
solito fare. Entrai nel portone del vecchio stabile e passai davanti alle
cassette sbirciando al passaggio nella mia fingendo di salire disinvolto
le scale. Nella mia questa volta vi era una lettera ma mi diressi come
al solito verso le scale senza fermarmi, salii fino al primo piano, poi,
vedendo che tutto era tranquillo, ridiscesi deciso ad aprire la cassetta,
ma proprio in quel momento un ragazzo giovanissimo entrò dal portone.
Ripresi il cammino verso l'uscita senza soffermarmi davanti alle cassette,
e proseguendo per una cinquantina di metri la strada, poi, constatando
che tutto era tranquillo, ritornai sui miei passi ed entrai nuovamente
nell'androne. Aprii la mia cassetta, presi la lettera che vi era dentro
e mi avviai di nuovo verso l'uscita quando, il solito ragazzo entrò
di nuovo. Sentii alle mie spalle che si fermò e mi seguì
verso l'uscita a brevissima distanza. Arrivato fuori dal portone, girai
a sinistra e per un attimo intravidi il ragazzo fare un cenno di testa
ad un uomo con un impermeabile bianco appostato all'ingresso del portone
e sbucato da chissà dove.
Non ci volle molto a capire che mi avevano teso una trappola e che ci
ero cascato a piedi pari. Sentivo di essere seguito ma al momento pensai
che la cosa migliore da fare era quella di rimanere calmo, di non voltarmi,
di non fare vedere che sapevo di essere seguito. Ad una sessantina di
metri davanti a me la stradicciola finiva in una T, e camminando vedevo
in una vetrina frontale i miei inseguitori. Il ragazzo mi seguiva ad una
quindicina di metri da un lato della strada, mentre l'uomo dall'altro,
si era tolto l'impermeabile e mi seguiva tenendolo in mano. Senza allungare
il passo cercavo di camminare normalmente sperando di arrivare in tempo
in un bar vicino dove vi era un'uscita dal retro, vicino alle toilette,
forse avevo ancora una speranza. Arrivai così davanti al bar e
stavo per entrare ma giusto sulla soglia mi sentii afferrare per le spalle,
i due che mi seguivano mi tenevano strettamente mentre un terzo poliziotto
sbucato dal nulla mi mise le manette ai polsi.
Il mio
primo pensiero fu un addio a Ferruccio e a Nizza. Al Commissariato mi
fecero svuotare le tasche, togliere i lacci delle scarpe e la cinghia.
Ormai mi trattavano con insolenza e con disprezzo. A me non importava
più niente, ero traumatizzato per l'accaduto e non mi spiegavo
cos'era successo. Tutto era avvenuto così in fretta, sapevo solo
di essere nella merda fino al collo e che mi aspettavano giorni ancor
più duri. Uno di loro con uno spintone iniziò dicendo :
"Ormai sei cotto! Alè, sputa fuori, dov'è Duscenne?
Chi è che si faceva passare per Boruso? Da quanto tempo dura il
tuo sporco gioco? Ah, fai il furbo e non vuoi parlare, ora ti sistemiamo
noi". Un'altro mentre esaminava i miei documenti esclamò:
" Italiano eh? Vedrai cosa ti costa venire a fare il furbo qui".
E ricominciavano: “Allora vuoi dire dov'è Duscenne?".
Speravo di risvegliarmi dall'incubo, ma tutto era maledettamente reale.
Non mi ero mai sentito tanto umiliato e tanto depresso. Avremo fatto più
di un chilometro a piedi prima di arrivare al Commissariato percorrendo
le vie centrali dell'Hotel de Ville, ammanettato e stretto alle spalle
da due di loro. La gente si fermava a guardarci con due occhi grandi così,
anche le macchine si fermavano e i ragazzini ci seguivano per meglio imprimersi
nella mente com' era fatta la faccia di un delinquente visto in carne
ed ossa per timore che tale occasione non si ripresentasse mai più,
e com' erano quei poliziotti che difendevano eroicamente i "buoni".
Stanchi di farmi domande alle quali non rispondevo, mi tolsero le manette
per rinchiudermi in una piccola cella.
Più tardi uno di loro mi gettò attraverso le sbarre una
coperta che un'altro si precipitò a riprendere dicendo al primo
che non ne avevo diritto visto che ero "sorvegliato speciale".
Rimasto solo, mi lasciai crollare sulla panchina di cemento afflitto da
mille domande: “Cos’era dunque successo? Perchè quella
pronta reazione della polizia? Se Duscenne aveva fatto come gli avevo
chiesto, era impossibile che le cose fossero precipitate in quel modo.
Una ditta commerciale maneggia assegni con frequenza e se li aveva ben
staccati dal blocchetto togliendo premurosamente anche il talloncino,
come del resto eravamo d'accordo, difficilmente potevano far caso ai numeri
di ognuno di essi. Certamente qualcosa non aveva funzionato nell'operato
di Duscenne, ma cosa? Sentivo un indescrivibile senso di vuoto attorno
a me, un infinito senso di solitudine, rammarico e disgusto, il tutto
percepito come un gran freddo interno e un senso di vomito.
Nella semioscurità della cella intravedevo un gabinetto alla turca,
nel quale, ogni cinque minuti colava automaticamente una rumorosa scarica
d'acqua. Non mi era difficile capire che la mancanza di coperte malgrado
il freddo della notte e il fastidioso continuo rumore delle scariche d'acqua
facevano parte di una messa in scena studiata apposta per impedire al
detenuto di dormire in attesa dell'interrogatorio per "lavorarselo"
meglio, infatti, passai la nottata in bianco.
Al mattino mi rimisero le manette e mi portarono al Commissariato centrale
del settore dove mi rinchiusero in una grande cella assieme ad altri per
tutta la mattinata. Nel pomeriggio mi condussero al mio appartamento che
perquisirono a fondo, mentre io li guardavo buttare tutto sottosopra seduto
in disparte, sempre ammanettato, poi mi ricondussero in cella.
Non mangiavo da ventiquattro ore ma non avevo fame ne sonno, solo un gran
desiderio di fumarmi una sigaretta malgrado quell'indefinito senso di
freddo interno e di vomito.
Mi sentivo schiacciato da quell'enorme apparato giustizialista così
impietoso verso gli effetti del male accaduto ma così insensibili
sulle cause.
Il giorno seguente, solo verso sera venni introdotto all'interrogatorio.
Da ormai quarantott'ore ero a digiuno e senza dormire, ero "cotto"
a puntino come volevano loro. Tanto con i poveracci potevano fare quello
che volevano, siccome non vi era nessuno per difenderli e la privazione
del mangiare e del dormire, con l’aggiunta della grande tensione,
rende l'individuo ipersensibile a facili crisi di nervi. Vi era in più
nell'attesa la vista di coloro che ritornavano dagli interrogatori, spesso
sfigurati dalle percosse ricevute. Anche quelli erano trattamenti riservati
a quelli che come me, non erano protetti da buoni avvocati, e quelle erano
infrazioni anche peggiori della mia, ma per loro non vi era nessuno a
contrastarli.
Mi introdussero
in una stanzetta dove vi era un commissario seduto dietro la scrivania,
pronto a battere a macchina le mie dichiarazioni, mentre io, venni addossato
al muro con tre energumeni di fronte, due dei quali erano gli autori del
mio arresto. Le loro facce non avevano niente da invidiare ai più
brutti ceffi-tagliagole dei bassi fondi di Pigalle e senza preamboli mi
strinsero contro al muro minacciosi. "Allora ti decidi a parlare
o vuoi delle sberle? “Sapevo che non avrebbero esitato a malmenarmi,
ma tacendo avevo la sensazione di vendicarmi sulla loro prepotenza. Credo
invece che non avrei insistito nel mio silenzio se mi avessero trattato
più umanamente, tanto più che la mia posizione non doveva
poi essere così grave, anche se in mano avevano delle prove certe
sulla mia colpevolezza o la mia complicità. Anche tacendo sarei
stato condannato. Nel mio mutismo cercavo disperatamente una via d'uscita
ma non ne vedevo proprio.
I tre sbirri intanto non mi davano tregua, spintoni, insulti e parolacce
si alternavano alle solite domande: “Dov’è il tuo complice?
Da quanto tempo durano le vostre truffe? Parla bastardo! Vuoi che ti riempia
di botte? “Così dicendo mi tenevano per il bavero della giacca
incollato contro la parete mentre uno che stava per darmi un pugno venne
scansato da un'altro che cercava di darmi delle ginocchiate nel basso
ventre senza però riuscire a centrarmi perché paravo i colpi
del mio meglio. Da uno degli energumeni che mi si affannavano attorno,
sporgeva dalla cintura il calcio di una pistola e per un attimo ebbi la
tentazione di afferrarla, ma proprio in quel momento fu lui stesso ad
estrarla, mise una pallottola in canna e me la puntò minaccioso
sotto la gola gridandomi che per l'ultima volta mi ordinava di parlare.
Non era certo con quel trucco che poteva impressionarmi, dato che, se
li ritenevo capacissimi di sfigurarmi, non sarebbero stati coglioni al
punto di spararmi a brucia pelo. Ero invece preoccupato per non riuscire
a trovare una via d'uscita, una storia sensata da raccontargli e mi dovevo
decidere in fretta.
Il Commissario che non aveva ancora detto una parola, intervenne per ordinare
allo sbirro di rinfoderare l'arma. Erano arrabbiati per il mio cocciuto
mutismo ma era quello un mio modo di vendicarmi della loro volgarità
e della loro violenza. Era ormai una ripicca tra noi, pur sapendo che
con quel sistema non avrei migliorato le cose.
Ma alla fine, tra la lunga veglia e il digiuno, mi sentivo esausto. Se
fossi riuscito ad impossessarmi della rivoltella avrei certamente fatto
una pazzia, forse fu meglio così; non che sentissi la fame o il
sonno ma solo una grande tensione nervosa e avrei dato tanto per una sigaretta.
Visto
che la farsa con la pistola non aveva funzionato, i tre mi spiaccicarono
nuovamente contro al muro e mentre in due mi ci tenevano contro, il terzo
mi sferrò un pugno allo stomaco che cercai in estremis di parare
unendo le braccia in croce per proteggermi. Dopo il pugno afferrò
con le due mani il bavero della mia giacca unendole strettamente sotto
la gola urlandomi che, se non mi decidevo a parlare mi avrebbe strozzato
all'istante. Il suo viso paonazzo era vicinissimo al mio, sentivo il suo
alito puzzolente sventagliarmi la faccia, avrei avuto voglia di sputarci
sopra.
Il Commissario intervenne ancora: "Senti” disse alzandosi e
venendo verso di noi,
“il tuo silenzio è completamente ridicolo, abbiamo qui tutte
le prove necessarie e anche tacendo verrai condannato comunque, desideriamo
solo sapere come si sono svolti i fatti, fare il rapporto e liquidare
la questione. Perciò il tuo silenzio non porta a niente".
Mi avevano infatti trovato in tasca la chiave della cassetta a lettere,
la falsa carta d'identità, e la lettera che trovai nella cassetta
della posta. Come potevo discolparmi da tante prove? Quella voce che mi
parlava con un tono umano ebbe più efficacia su me dei metodi rozzi
degl'altri, così mi decisi a dire: "Vorrei una sigaretta".
Il Commissario fece cenno ai tre di lasciarmi e prontamente mi offri la
sigaretta.
Ci sedemmo e raccontai i fatti essenziali che mi concernevano, ma di Duscenne,
da quando era fuggito non ne sapevo più niente.
Mi riportarono in cella con altri, a sera partimmo in una ventina su dei
furgoni cellulari suddivisi all'interno in tante piccole celle metalliche
strette e completamente buie.
In ciascuna di esse eravamo in due: uno seduto, l'altro in piedi, pigiati
come sardine. Dopo un breve percorso, il cellulare si fermò e due
agenti armati dischiusero i vari catenacci delle piccole celle e ci fecero
scendere disponendoci in fila circondati da un folto nugolo di gendarmi
in uniforme, per rinchiuderci poi nuovamente nelle celle collettive del
palazzo di giustizia.
Nella
penombra della cella ci si intravedeva a fatica l'un l'altro, era piena
di fumo, alcuni camminavano nervosamente da una parete all'altra fumando
di continuo, altri erano radunati per gruppetti e spiegavano ai compagni
i fatti che avevano motivato il loro arresto. Io che non avevo voglia
di parlare me ne stavo seduto a terra contro la parete ad osservare il
tutto.
Più che una cella il nostro era uno stanzone con un'unica porticina
di legno di un largo spessore e con molti catenacci. Sopra in alto vi
era un finestrino che aprirono solo a tarda sera per passarci un po’
di sbrodaglia dentro a delle scodelle di latta.
Abituato all'oscurità distinguevo meglio le facce dei miei compagni;
avevano tutti l'aria di essere dei poveri cristi, alcuni sembravano addirittura
dei vagabondi, altri avevano delle contusioni o addirittura erano sfigurati.
Chi poteva, continuava a fumare, chi non poteva stava attento a precipitarsi
sulle cicche.
Anch'io avevo voglia di fumare, ma restando in disparte, non era facile
trovare chi mi offrisse una sigaretta. Sembrava di essere in un altro
mondo.
Il rispettato, l'ammirato non era più il "buono" ma il
"Caìd", il pezzo più grosso della mala, e ce ne
era qualcuno, sempre attorniato da folti gruppi di ammiratori.
Ci si dava tutti del tu, la farsa delle differenze di classe era finita
pur prevalendo un maggior rispetto per coloro che avevano una certa eloquenza
o un certo aspetto più importante, i contatti, sebbene tra sconosciuti
avvenivano spontaneamente. Ci si sentiva tutti dalla stessa parte, tutti
un po’ complici. Ognuno voleva essere un po’ più "grande",
averla fatta più grossa, essere lì per qualcosa che ne valeva
la pena o invischiato in cose più importanti. Ad ogni nuovo contattato
la solita domanda: E tu cos’hai fatto?” L’interpellato
raccontava il suo fatto, magari esagerandolo un po’, perché
chi si era fatto prendere per poco veniva considerato un pidocchio. In
ogni gruppo si raccontava la modalità di esecuzione del colpo fatto
ad ascoltatori attenti, che da esperti giudicavano se la tattica adoperata
era quella di un professionista o di un volgare debuttante.
Solo dopo poche ore nella stanza sapevo già il nome dei principali
arnesi da scasso e le varie tetniche per scassinare una porta, o per commettere
un furto. Alcuni se ne stavano in disparte come mè e non parlavano,
avevano un aspetto stravolto e estremamente preoccupato. Ne dedussi che
come me, erano anche loro alla prima esperienza. Tra tante voci, ogni
tanto sentivo qualcuno desiderare che ci trasferissero al più presto
al carcere, almeno là, dicevano si potrà dormire.
I miei
nervi cominciavano a rilassarsi e sentivo anch'io il desiderio di essere
lasciato in pace e di dormire. Ma esaurite le novità presso i principali
chiacchieroni, alcuni andavano a reperirne altre presso quelli più
taciturni. Da me venne prima un "closcard" a chiedermi una cicca,
ma non ne avevo. Poi venne un biondino che con un accento straniero mi
espose il suo desiderio che ci trasferissero al più presto in prigione,
sperando che ci mandassero in quella di Fresnes perché, diceva
che quella della Santè era peggiore. “Pare che tu te ne intenda"
gli dissi. "E' la terza volta che mi faccio prendere” rispose
sorridendo, “e tu?"."Sono qui per la prima volta, una
questione di assegni" risposi. Chiacchierammo ancora un po', poi
, vinto dalla stanchezza mi allungai anch'io come tanti altri sul freddo
pavimento, indifferente alla sporcizia e agli eventuali pidocchi.
Solo dopo le venti del giorno seguente ci fecero salire sui "cellulari"
e ci portarono alla prigione di Fresnes dove passammo in vari uffici per
le impronte digitali. Seguì la doccia disinfestante per essere
sottoposti infine ad un'ultima minuziosa perquisizione. Ci consegnarono
le coperte, le gamelle, e ci incolonnammo in fila per uno e fummo scortati
dai secondini lungo una interminabile fila di corridoi sbarrati da pesanti
cancellate di ferro. Ci fecero salire delle scale e in un ultimo corridoio
ci piazzarono davanti alle celle di destinazione. La mia era la 412. Attesi
immobile con la faccia al muro che il guardiano del piano venisse ad aprirmi.
Quando arrivò, fece scattare due grosse serrature, ne tirò
i massicci catenacci e si scansò per farmi entrare dicendomi: "Sbrigati
a svestirti, poi metterai fuori nel corridoio gli abiti e la scarpa sinistra,
io aspetto". Entrai col mio fagotto, due detenuti erano seduti su
degli sgabelli e giocavano con delle carte disegnate a matita su un piccolo
tavolino piazzato nel bel mezzo della cella. In un angolo vi era un water
con a fianco un piccolo lavabo, un armadietto e tre letti. Al mio saluto
i due risposero con un cenno del capo. Misi fuori i vestiti e una scarpa,
il guardiano richiuse e se ne andò.
"Hai
una sigaretta?” chiese il più giovane dei due. “Mi
spiace ma sono senza" replicai, e i due si rimisero a giocare. Meglio
così, non avevo voglia di parlare. Mi feci il letto e mi coricai
pensando a Ferruccio che non sapeva niente e che continuava ad aspettarmi
fiducioso al suo appartamento, modesto ma arredato con gusto. Pensavo
al nostro progetto per Nizza, tutto non era stato che un sogno, un sogno
troppo bello per avverarsi. Nella triste realtà ero sprofondato
in un abisso, avevo oltrepassato la barriera e mi trovavo nel mondo dei
sovversivi. Perderò l'appartamento, pensavo, mi riprenderanno la
macchina che ho lasciato in strada, le mie cose personali, tutto. All'uscita
dovrò ricominciare di nuovo, ma ricominciare cosa se dopo tanti
anni di lavoro dovevo tirare avanti a forza di panini in attesa della
busta paga. Chissà per quanto tempo dovrò restare in prigione,
tenendo conto del fatto che sono incensurato e che il mio non è
stato che un tentativo di truffa senza che vi sia stata una parte lesa,
non dovrei prendere molto, ma non so come si comporteranno con uno straniero.
Trascorsi le prime notti dormendo pochissime ore di un sonno agitato,
anche perché, essendo sempre rinchiusi non si aveva la possibilità
di stancarsi. Solo dopo alcuni giorni il fisico si adattò alla
nuova vita. Ero sempre stanco, dormivo tutta la notte e avrei dormito
anche parte del giorno se non fosse stato vietato.
I miei primi compagni di cella, un vecchio "closcard" e Jesus
un portoghese, se ne andarono presto. Il primo fu rimesso in libertà,
l'altro, che assieme al fratello era stato condannato a diciotto mesi
per furto con scasso, fu trasferito. Appena ne partiva uno ne arrivava
un'altro in modo che in cella eravamo sempre in tre, a volte quattro o
anche cinque ma generalmente in trè.
Dicembre
"67.
Quella
mattina si doveva svolgere il mio processo, avrei saputo finalmente a
quanto ammontava la mia pena. Per nove mesi avevo aspettato in carcere
quel momento, nove mesi rinchiuso in quella maledetta cella. Nel frattempo
ero stato convocato ben otto volte al palazzo di giustizia per interrogatori
e confronti con Duscenne, arrestato anche lui. Ebbi anche l'occasione
di sapere tramite il mio avvocato d'ufficio, come realmente si erano svolti
i fatti che avevano provocato il mio arresto immediato. Duscenne, che
era da tempo ricercato dalla polizia, non aveva rubato gli assegni a una
ditta commerciale come mi aveva assicurato, ma addirittura ad un ufficiale
giudiziario. Non seppi per quale motivo si fosse recato da lui, ma seppi
solo che durante il colloquio, il funzionario fu richiamato in un'altra
stanza da una telefonata. Il Duscenne ne approfittò per sottrargli
alcuni assegni dal blocchetto rimasto sulla scrivania assieme ad una piccola
somma di denaro. Intascò il tutto e se la diede a gambe. Quando
il funzionario ritornò nell'ufficio, non trovò più
Duscenne e vedendo che con esso era sparito anche il denaro, automaticamente
controllò anche il blocchetto degli assegni. Notando che ne mancavano
avvertì immediatamente sia la polizia che la banca, la quale, ricevuta
la mia lettera con dentro gli assegni, indicò alla polizia l'indirizzo
del beneficiario. Questo risultava essere il Boruso alias io stesso e
fu estremamente facile alla polizia tendermi la trappola.
Ma, dico io, proprio a me doveva capitare quel Duscenne.
Durante
i lunghi nove mesi già trascorsi in carcere ricevetti più
volte la visita di un ufficiale della Legione Straniera, era sempre in
borghese e non saprei dire chi fosse esattamente, il fatto stà
che dapprima volle, diciamo, tastarmi il polso informandosi della mia
situazione in genere, infine mi disse di non preoccuparmi dato che mi
avrebbe tirato fuori, anzi, mi disse, “ Se vuoi puoi uscire oggi
stesso, basta solo che firmi per altri trè anni nella Legione”.
Al mio rifiuto se ne andò e non lo rividi mai più.
La cosa che tuttavia non capirò mai è il fatto di come io
abbia potuto in una Parigi andare a scovare un personaggio la cui incoscienza
non poteva assolutamente mancare di farci finire entrambi nel modo in
cui è finita.
Alle sei
e trenta del mattino mi fecero scendere dopo la solita perquisizione al
piano terra, dove mi rinchiusero assieme ad una trentina di detenuti in
una piccola cella. Dovevamo essere tutti processati il giorno stesso e
tra noi vi era un certo nervosismo. Si fumava più del solito rendendo
l'aria del piccolo ambiente irrespirabile. Stavamo tutti in piedi stretti
gli uni contro gli altri ad aspettare. Intorno si facevano discorsi di
circostanza: " Chi è il tuo giudice? In quale Camera verrai
processato?" Chiacchieravo anch'io con qualcuno degli amici che mi
ero fatto. Si diceva che il mio giudice era molto severo, ma che dopo
nove mesi di detenzione avevo molte probabilità di avere già
scontata la pena e che probabilmente sarei uscito la sera stessa, anzi,
certamente avevo già fatto una detenzione superiore alla condanna.
Avevo ancora un po’ di soldi dal saldo inviatomi dalla società
per cui avevo lavorato ultimamente. Appena avevano saputo del mio arresto
si erano affrettati a mandarmeli col licenziamento. Naturalmente la somma
non ammontava neanche alla metà del dovuto, e solo dopo il mio
protestare tramite l'assistente sociale del carcere, me ne spedirono ancora
una parte. Come sempre non ancora il saldo esatto e non mi fu possibile
insistere per avere il resto, dato che l'assistente mi fece capire gentilmente
di non abusare troppo della sua missione altruistica.
Alle otto ripassammo alla perquisizione uno per uno in una cella attigua.
Quando entrai il guardiano mi ordinò di spogliarmi nudo mentre
uno di loro controllava i vestiti. L'altro di fronte a me mi fece alzare
le braccia per guardarmi sotto le ascelle, poi mi ordinò di girarmi
e di chinarmi. Poi mi fece rimettere dritto e mi fece alzare un piede,
poi l'altro e finalmente mi concesse di rivestirmi. Non era la prima volta
che mi perquisivano ma non mi ero ancora abituato a tanta umiliazione.
Mi ero fatto rasare e avevo la faccia che bruciava, al barbiere, un detenuto
anch'esso, da un po’ di tempo non davo l'abituale sigaretta e lui,
per ricordarmelo quando mi rasava aveva la mano pesante. Solo quando potevo
"pagarlo” il suo rasoio passava sulla mia pelle leggero come
una piuma.
Alle nove ci avviammo in colonna verso l'uscita lungo gli interminabili
corridoi. Uno dietro l'altro in silenzio, mani dietro la schiena e inquadrati
da numerosi guardiani. Prima di uscire ci fecero sostare in un'altra cella.
Riapparvero le sigarette, si riprese a chiacchierare. Popòl, un
ladro di macchine che mi era sempre vicino, mi chiese se avevo sentito
le urla della sera prima. “E' un nuovo arrivato che si è
lasciato prendere da una crisi di nervi”, mi disse, “ha saputo
che la moglie lo ha lasciato ed è partita coi due figli assieme
ad un'altro, tutte vacche le donne” continuò Popòl
sputando a terra.” Gli è venuta una crisi ed ha spaccato
tutto quello che ha trovato attorno con uno sgabello. Poco dopo sono entrati
nella sua cella in cinque o in sei guardiani e lo hanno riempito di botte
fino a farlo svenire, poi lo anno portato al "Mittard", cioè
la prigione della prigione, tutti porci sti guardiani" aggiunse sputando
nuovamente.
Succedeva quasi ogni sera, chissà perché sempre di sera
che qualcuno si lasciasse prendere da una crisi di nervi o che qualcuno
tentasse un suicidio. Alla prima crisi venivano spediti al Mittard, se
questa si ripeteva allora li mandavano in manicomio dove si finiva per
diventare pazzi sul serio.
Alle undici, dopo l'appello, ci fecero salire su degli autobus speciali,
con i vetri tinti di bianco e rafforzati da griglie. Ai due lati vi erano
due file di piccole celle in grigliate metalliche e in ognuna della quali
eravamo in quattro. Per ultime salirono quattro ragazze abbastanza carine
che come noi dovevano essere processate.
Tra i due sessi nacque spontanea una simpatia che subito si manifestò
con battute scherzose anche per alleggerire un po’ la tensione generale.
"Ehi” disse una di loro, “Si, tu tirati da parte che
veda quel bel ragazzo che ti sta dietro, si proprio tu, sai che mi piaci?"
"Questa sera se siamo liberi ci vediamo" rispose il Romeo.
Le ragazze si sedettero scomposte, lo facevano apposta per farci sgranare
gli occhi, o per prendere in giro i carcerieri. Vi erano anche dei minorenni,
una diecina di ragazzi dai dodici ai quindici anni. Cercavamo tutti di
apparire allegri anche se solo per nascondere l'ansia che non escludeva
nessuno.
Arrivati
al palazzo di giustizia vi fu un'altro appello per controllare nuovamente
se vi erano tutti. Poi ci rinchiusero in piccole celle buie del palazzo
stesso denominate le "trente six carreaux". A mezzogiorno ci
distribuirono il pranzo consistente in due uova sode a testa. Alle quattordici
iniziarono i processi e quando arrivò il mio turno mi sentivo molto
emozionato.
Ci chiamarono fuori dalla cella in quattro e ci ammanettarono. Alle catene
delle manette venne agganciato un guinzaglio con due attacchi, uno per
persona.
Ogni gendarme si tirava dietro al guinzaglio due detenuti. Così
conciati attraversammo innumerevoli corridoi sotterranei denominati "la
souriciere", ossia la topaia, fino a sbucare davanti alla dodicesima
camera correzionale.
Il mio avvocato d'ufficio, un certo Cirotteau, eccezionalmente molto interessato
alla mia causa, cosa strana per essere un avvocato d'ufficio e al quale
fui e sono tuttora riconoscente, mi venne incontro fregandosi le mani
soddisfatto e dicendo che ero fortunato perché pareva che quel
giorno il giudice fosse di buon umore. Duscenne era vicino a me. Entrammo
nell'aula e ci sedemmo sul banco degli accusati. La sala era piena di
curiosi venuti ad assistere ad uno spettacolo gratis.
Entrò la corte e il presidente iniziò ad enumerare i precedenti
di Duscenne e ne aveva tanti! Poi venne il mio turno. Espose i fatti e
terminò col dirmi: “Credete di aver fatto una bella cosa
in un paese che vi ha accolto fraternamente, ospitandovi e dandovi lavoro?
E' così che dimostrate la vostra riconoscenza? Cosa si direbbe
in Italia se un francese andasse a fare il lavativo?. Era troppo. Questo
non me lo doveva dire, era la famosa goccia . Da quando ero in Francia
non sentivo altro che frecciate per il mio stato di straniero. Ovunque
mi rinfacciavano quella generosa elemosina che mi facevano, mentre in
realtà tutti mi avevano fregato a cominciare dai governanti stessi,
e nessuno teneva conto dei miei meriti. Ero io che sentivo di essere stato
generoso con loro ad avere tante volte rischiato la vita per i loro interessi.
E quella manfrina della loro pietosa carità me la ero sentita ripetere
ultimamente ancora più spesso. Dal direttore del carcere, dal prete
al quale avevo chiesto un libro e dall'assistente sociale. Per terminare
il giudice mi chiese: “Avete qualcosa da dire in vostra difesa?".
Ero sconvolto e arrabbiato, non capivo perché mi si rinfacciasse
sempre la mia "cattiveria", la mia nazionalità piuttosto
che il grado di colpevolezza.
Il mio carattere solitamente mite mi aveva reso sopportabile, anche se
a fatica certe avversità e ingiustizie. Non ne potevo più
e quando il vaso trabocca mi capita di avere reazioni insolite che mi
trasformano. Non sopportavo più che quella gente continuasse a
vedere in me solo il delinquente, l'irriconoscente, l'usurpatore che non
ero. Semmai ero io ad essere stato defraudato dei miei diritti, sia dai
loro governanti che dai numerosi datori di lavoro. Loro mi avevano imbrogliato,
spogliato dei miei beni e da ogni possibilità di sopravvivenza.
I miei occhi vedevano ormai nei giudicanti coloro che avrebbero dovuto
essere giudicati, loro erano i veri colpevoli.
Mi alzai
e cominciai ad esporre i fatti mentre il giudice esaminava il mio libretto
militare della Legione, i certificati di buona condotta italiani e francesi.
La mia voce alterata dall'emozione era forte, quasi un grido, "....In
nove mesi di detenzione è la quarta volta che mi sento rimproverare
di essere venuto in Francia per comportarmi male, per abusare dell'ospitalità,
ma nessuno ha mai tenuto conto del fatto che io abbia mille volte rischiato
la vita durante cinque anni per il vostro paese!. L'avvocato seduto accanto
a me mi tirava per il fondo della giacca facendomi disperatamente segno
di tacere. Delle esclamazioni di indignazione e di stupore si alzavano
tra gli spettatori, ma ero esploso e chi mi teneva più? "Sono
io ad essere stato truffato dai vostri governanti con le promesse che
mi hanno fatto e che non sono state mantenute! Non sono state mantenute
le parole stesse del colonnello Rafanò quando ci disse a tutto
il battaglione riunito ” voi siete tutti francesi, non per il sangue
ricevuto ma per quello versato" Sì, mi sentivo fiero, anche
quando durante le sfilate i civili che vi assistevano aspettavano solo
il passaggio dei legionari per gettare fiori, grida di entusiasmo e scrosci
di battimani,ma quando ne sono uscito gli stessi civili, le stesse autorità
per poco non mi sputavano in faccia, nessuo voleva più aver a che
fare con un ex legionario. Sì, è vero che ho sbagliato,
ma l'ho fatto per sopravvivere mentre i governanti francesi mi anno ignobilmente
ingannato. Sapevo benissimo che il mio atteggiamento non era adeguato
a commuovere la corte, ma non mi importava più niente. Mi pareva
ad un tratto di avere davanti a me i veri colpevoli, colpevoli di tutte
le mie sventure. Il rancore accumulato in tanti anni di sopportazioni
e di umiliazioni mi saliva alla testa e si sfogava d'un colpo come un
uragano. Nessuno mi tratteneva più malgrado vedessi alcuni tra
la corte scuotere negativamente il capo, malgrado sentissi esclamazioni
di sdegno tra la folla e il mio avvocato mi pregasse di tacere. Ormai
ero in pieno combattimento, non avevo più davanti a me dei poveracci
che ammiravo sebbene fossi stato obbligato a sparargli contro, ma dei
veri colpevoli; ed era con entusiasmo che avanzavo sparando incurante
delle numerose pallottole che mi fischiavano attorno. Anche la mia voce
gridava con lo stesso tono rauco che usavo per ordinare l'assalto. Ma
la mia piccola guerra non era in realtà che un sussulto disperato
di uno che stava per soccombere e più la mia reazione era vivace
più davo la possibilità ai miei nemici di incastrarmi.
Infatti
scelsi ben male il momento di fare la mia guerra. Quando ebbi finito il
giudice disse semplicemente: “La corte prenderà atto della
vostra deposizione". L’avvocato della pubblica accusa prese
la parola facendo notare alla corte quanto io fossi impenitente ai miei
peccati e chiese il massimo della pena: Tre anni.
Dopo il mio bel discorso l'avvocato poteva dire ben poco in mia difesa
e la corte si ritirò per ricomparire un'ora dopo. Mi vennero confermati
tre anni di detenzione più cinque di interdizione di soggiorno
con domanda di espulsione.
Mi girava la testa. Al ritorno eravamo tutti silenziosi, solo pochi discutevano
delle pene inflitte. Tre anni! Pensavo tra me e me. Sarei stato trasferito
con le catene alle caviglie in un'altro carcere, che umiliazione.
Appena in cella i miei compagni mi vennero attorno per chiedermi: "Allora
esci questa sera?" "Tre anni” risposi. Non lo credevano
possibile , stentavo a crederlo anch'io.
Avevo osato dire la verità e non ne avevo il diritto. Alla faccia
della libertà
della uguaglianza e della fraternità di cui hanno fatto il loro
simbolo. Avrei dovuto invece accasciarmi ai loro piedi e dirgli quanto
ero stato cattivo malgrado la loro infinita generosità e di quanto
ne ero pentito. Avevano punito questo più che l'infrazione.
Avevo avuto il diritto, che dico, il dovere di uccidere ma non quello
di sopravvivere. Avevano avuto il diritto di truffarmi ma non quello di
truffare.
Ero solo io il cattivo anche se non avevo arrecato danno a nessuno, mentre
coloro che realmente mi avevano ingannato restavano tra i "buoni".
Mi avevano messo con le spalle al muro, ma non dovevo reagire. Quante
cose per me erano ingiuste.
Mi coricai disgustato del mondo intero e più che mai convinto che,
non la giustizia ma solo i più forti hanno sempre ragione.
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