Capitolo II - Da Tanto Amati a Tanto Odiati


Parte II


Il gigante capo Tuareg, Scilvanì e Azùll, un ragazzino di tredici anni sordomuto assunto come sguattero in cucina e a me molto affezionato, si accostarono esitanti. Poi Scilvanì si decise a rompere il silenzio e mi disse: “Tu partire?" Non capivo come avessero fatto a saperlo. Avrei voluto andarmene senza fare rumore, non volevo più frappormi tra loro e i militari, non ne avevo il diritto anche se la mia sensibilità non sopportava certi soprusi. Ma non avrei cambiato da solo le ingiustizie che da secoli erano abituali tra dominanti e dominati, tantopiù che il loro contratto di sei mesi era prossimo alla scadenza.
"Sì" gli risposi. Avevano tutti un'aria desolata, il piccolo Azùll cercava di farmi capire qualcosa con grandi gesta che non capivo e cercavo di non farci caso per non perdermi in spiegazioni inutili. Ma il ragazzo non si arrendeva, mi tirava per una manica costringendomi a guardarlo. I suoi occhioni neri erano pieni di lacrime mentre continuava a gesticolare lasciando uscire dalla bocca, che si sforzava di dirmi qualcosa, dei rantolii indistinguibili. Il gigante Tuareg lo prese per un braccio e lo tirò indietro mentre gli altri indigeni confabulavano tra loro eccitati. Il gigante mi fece dire da Scilvanì: " Se tu partire, partire anche tutti noi ",e si voltò verso gli altri gridando qualcosa che non capivo ma che tutti approvarono con decisione. " Noi partire tutti", giunse il vecchio Scilvanì.
Mi dispiaceva che la cosa avesse preso quella piega, avrei preferito partire senza causare quel tumulto.
I militari erano anch'essi tutti fuori dalle loro tende e osservavano la scena in silenzio. Anche il sergente era tra loro e poco prima mi aveva chiesto, scusandosi per l'accaduto, di dimenticare il tutto e di restare. Poi, vedendomi deciso a partire, mi chiese di non riferire al comando della compagnia dove mi sarei recato per prendere l'aereo, com'erano andate le cose. Aveva la solita aria umile e pentita che ormai non mi convinceva più. Comunque lo rassicurai che non avrei detto niente.
Cercai di calmare gli indigeni spiegando loro che si trattava solo di una questione tra me e il sergente, che mi aveva assicurato che d'ora innanzi si sarebbe comportato meglio con loro e che in ogni caso erano vicini alla fine del loro contratto di lavoro e che era meglio continuarlo fino alla fine mantenendo buoni rapporti con i militari.
Seduto nella cabina salutai gli indigeni con un po’ di rimorso e partii senza salutare i militari. Azùll, trattenuto dal gigante cercò di svincolarsi per corrermi dietro perché sapeva che non avevo capito quello che aveva tanto voluto farmi capire, mentre gli altri mi guardavano tristemente partire.

Di nuovo ad Algeri, iniziai a cercarmi un'altro lavoro. Sapevo che le società petrolifere pagavano gli autisti quasi il doppio dei militari e orientai la mie ricerche in quel settore. Questa volta mi sentivo ricco, avevo trecentomila franchi in banca e settanta in tasca, e cominciai a darmi da fare senza perdere tempo.
Fui assunto qualche tempo dopo da una società tedesca, la Wisarep, la quale mi assegnò subito una Land-Rover nuova di zecca. I preparativi per la partenza durarono pochi giorni. Partimmo con tre veicoli guidati da un autista francese, il vice direttore della società ed io.
Partimmo di sera e viaggiammo per tutta la notte passando per Blidà, Laguoat, Gardaià, per arrivare nella mattinata seguente ad Ouarglà, dove sostammo per alcune ore e ne approfittammo per fare un giretto al "Souk", cioè al mercato.
Ero in Africa da ormai diversi anni ma non cessavo mai di vedere cose nuove perché di continuo i costumi cambiavano a secondo della zona o della tribù in cui ci si trovava. Non avevo ancora visto un mercato nel sud algerino, ed ero sempre curioso di vedere cose nuove.
Attorno alle numerose bancarelle alte appena una trentina di centimetri dal suolo, vi erano molti ambulanti o semplici privati venuti anche da lontano che, accovacciati a terra cercavano di vendere qualche pugno di spezie, o delle uova. Qualcuno aveva solo un pentolino con del latte cagliato di cammella o di capra o un pollo, ma tutti con pochissima merce che sembrava nessuno volesse comprare. Vecchi seduti a terra con qualche cartoccio di semi e un mucchietto di cipolle. Più in là c’erano i venditori di "broscette", cioè spiedini di capra o di pecora, i venditori di giarre, quelli che vendevano acqua sciroppata contenuta in pelli di capra che portavano a tracolla servendo la gente con un'unico bicchiere mai lavato. E la gente, tanta gente che camminava tra tutto quel caos, sputando o soffiandosi il naso con le stesse dita spesso e un po’ ovunque. Nel caldo torrido e nella polvere che sollevavano con i loro sottanoni, che quasi trascinavano per terra. C’era un gran viavai tra polvere e mosche. Vi erano anche le bancarelle di carne di pecora o di agnello esposta al sole e alla polvere, ricoperte da un folto strato di mosche. Chiunque era interessato prendeva in mano un pezzo di carne, la palpava, ne valutava il prezzo e quando era troppo alto la ributtava con disprezzo sulla bancarella schiacciandovi sotto diecine di mosche.
Un vecchio se ne stava seduto da tempo con tre uova di gallina che nessuno comprava, il suo volto rugoso era anch'esso ricoperto dalle mosche che non si curava di scacciare. Poco più in là, mi attirò un raggruppamento di gente al centro del quale vi era un cantastorie, accanto ad una vecchia donna che cercava di vendere tre piattini usati. Erano tanti coloro che cercavano solo di racimolare poche monetine.

Ripartimmo verso mezzogiorno per Hassi Messaoud. In quel luogo lasciammo la strada per inoltrarci su una pista molto ondulata e piena di buche.
Continuammo a rullare guidati dal vice direttore per tutto il giorno senza soste, solo a notte inoltrata arrivammo in vista di un piccolo campo composto da sette tende e illuminato da un gruppo elettrogeno.
I componenti del campo erano: due geologi e due topografi tedeschi, un cuoco e un meccanico francesi, io e il nuovo autista arrivato con me, mentre il vice direttore sarebbe ripartito per Algeri.
Quelli al campo erano anch'essi arrivati da poco con un aereo atterrato in una vecchia piccola pista vicina.
Mangiammo qualcosa di freddo, tirammo fuori le brande dalle macchine e ci preparammo a dormire allo scoperto siccome la nostra tenda non era ancora montata.
Al mattino, due persone si recarono ad In Salàh in cerca di una quindicina di indigeni da ingaggiare, mentre noi ci apprestammo a montare il resto del campo.
Con la mia Land Rover dovevo restare a disposizione di uno dei geologi, Habist, un ciccione che oltrepassava di gran lunga il quintale, nervoso e poco socievole.
Anche se sotto le tende si rischiava di cuocere, il campo era organizzato e attrezzato abbastanza bene. Avevamo tre grossi frigoriferi contenenti tutto quello che si poteva desiderare riguardo a cibaglie e bevande di ogni sorta di cui potevamo servirci a volontà e comunque un aereo sarebbe venuto a rifornirci una volta la settimana.
La mia macchina era ben equipaggiata, con due fusti da venti litri di benzina di riserva e due di acqua, due ruote di ricambio, il necessario farmaceutico, una riserva di viveri per tre giorni e per due persone, i razzi di segnalazione aerea, strisce di stoffa rossa anch'esse per segnalazione, una bussola, alcuni pezzi di ricambio, arnesi meccanici e due lamieroni appesi alle fiancate da mettere sotto le ruote nei casi di insabbiamento. Vi era poi una ricetrasmittente fissa al campo. All'esterno della macchina avevo anche trovato il sistema di appendervi un secchiello di tela contenente dei succhi di frutta, che avvolti in uno straccio bagnato si mantenevano bevibili durante le escursioni.
Habist, con la carta geologica in mano, mi indicava la direzione che dovevo prendere, e di tanto in tanto mi faceva segno di fermarmi. Scendeva con un martello e andava a spaccare qualche pezzetto di roccia che metteva in un sacchetto per spedirlo al laboratorio per le analisi.
La zona presa in affitto per le ricerche era molto vasta, doveva aggirarsi sui duecento chilometri di diametro e tale zona la si percorreva in tutti i sensi, il ché ci dava modo di scoprire ogni giorno nuovi luoghi a volte con strane sembianze lunari, foreste di alberi pietrificati o zone piene di conchiglie e aragoste pietrificate, ma sempre zone aride e bruciati dal sole.
Habist non parlava francese, ma in compenso conosceva alcune parole in italiano che, aggiunte a quelle poche che io sapevo in tedesco ci permettevano di capirci per quel poco di essenziale che concerneva il nostro lavoro.
Come già dissi, era poco socievole con tutti, me compreso, ma divenne più socievole quando cominciammo a scoprire certe zone preistoriche dove ci recavamo ogni qualvolta ci era possibile. Tali zone un tempo verdeggianti e con acqua abbondante, erano abitate quindici, ventimila anni fa, ed erano di grande interesse per il geologo che, quando era di buon umore mi spiegava o cercava di spiegarmi le deduzioni che traeva da simili scoperte. Quali tecniche usavano i primitivi per intagliare le loro armi dalla selce: armi da guerra, da caccia, il diverso uso degli attrezzi domestici, o come fabbricavano i gingilli ornamentali per le loro donne con ossa, gusci di uova di struzzo, e pietruzzole colorate. ll fuoco doveva essere molto prezioso perché dove lo accendevano, veniva alimentato per mesi senza mai lasciarlo spegnere. Tant'è che nei luoghi dove lo accendevano vi sono tuttora dei monticelli di terra cotta derivante dagli enormi accumuli di cenere che certamente superavano diversi metri di altezza.
Avevamo fatta l'abitudine a riconoscere a distanza tali monticelli e attorno era facile trovarvi dei residui della loro permanenza come: punte di frecce in selce, asce da guerra o da caccia, coltelli, raschiatoi per le pelli degli animali, anelli pietrificati fatti con gusci di uova di struzzo. Pietre sulle quali pestavano le radici o semi e perfino schegge di ossa pietrificate di animali con i quali si cibavano.
Quando avevamo l'occasione di passare accanto a quelle zone ci fermavamo puntualmente per cercarvi gli oggetti descritti. Habist iniziava a percorrere la zona con passo rapido per prelevare per primo gli oggetti più interessanti. Siccome era piuttosto miope, tralasciava molti oggetti senza vederli, mentre io con più calma ne trovavo in quantità maggiori e quando glieli offrivo me ne era riconoscente.
Non era raro trovare incisioni sulle rocce e stranamente una di queste raffigurava una balena. Abbiamo trovato anche strani disegni tracciati al suolo per mezzo di pietre erette verticalmente e messe in fila su due lati, per lasciare un passaggio tra le due di mezzo metro, formando una spirale, come una chiocciola, terminanti tutti in una stessa direzione e con un piazzola al centro. Il che faceva supporre ad Habist che fossero luoghi di culto. Ai margini di ogni zona preistorica vi erano spesso nelle alture circostanti, dei mucchietti di pietre accatastate, e fu per pura curiosità che una volta mi misi a scavare sotto ad uno di questi trovandovi qualche ossamento fossilizzato di resti umani, con la particolarità che il cadavere era stato sepolto in posizione verticale.
Il mio nuovo lavoro era piacevole e il tempo passava senza pesare troppo. Mi ero abituato al gran caldo e anche lì, ogni tre mesi di lavoro ve ne era uno di riposo, come del resto era d'obbligo nel Sahara. Un mese di riposo tutto spesato che trascorrevo ad Algeri in un albergo in riva al mare nel quartiere della Pointe Pescade.
Mi alzavo allora prestino e prima di scendere in spiaggia facevo un salto alla Madraque per degustare col vino bianco le ostriche appena pescate dal vivaio, magari in compagnia di qualche ragazza, tanto per rifarmi del tempo perduto, e la sera andavo spesso a passeggiare in città.

La guerriglia nel frattempo continuava, anzi peggiorava e i giornali erano pieni di notizie allarmanti di continui sabotaggi e uccisioni.
Durante una di quelle passeggiate serali, trovai seduto in un bar Antonio, un torinese di origine siciliana che era stato sempre negli uffici della mia compagnia come contabile con il grado di sergente. Dopo una calorosa stretta di mano Antonio mi disse che anche lui aveva deciso di rimanere in Algeria, ma che si era pentito di quella scelta, dato che gli si chiudevano le porte a qualsiasi prospettiva di lavoro. Era disperato e ormai deciso a riporre la firma nella Legione.
"Stai scherzando?” gli dissi, “domani mattina fatti trovare qui alle dieci, voglio sentire negli uffici della mia società, mi pare di aver sentito dire che cercano un contabile. Se ti assumono puoi rallegrarti perché chi lavora per loro non ha motivi per lamentarsi". Alle dieci infatti gli portai la buona notizia, e lo condussi negli uffici per presentarlo.
Eravamo riusciti a sfondare lo sbarramento sociale creato per farci ritornare alla Legione. Io lavoravo con passione e riuscivo a economizzare gran parte della paga. Antonio era stato promosso negli uffici della mia società a capo contabile e anche lui guadagnava bene. Aveva affittato un bell'appartamento e si apprestava a far arrivare da Torino la moglie e la figlia Anna Maria di diciotto anni, dalle quali era ormai separato da sette anni. Contribuii volentieri alle spese per arredare il suo appartamento con un prestito di centocinquantamila franchi, in modo che tutto fosse pronto per l'arrivo dei suoi cari.
Anna Maria era una bomba, bella, intelligente e simpatica. Tutto in lei mi piaceva e avrei fatto di tutto per piacerle, ma aimè, lei era all'ultimo grido nella moda giovanile, mentre io che avevo trascorso i miei anni migliori nelle steppe e nel deserto, mi sentivo nei suoi confronti un fossile. Non conoscevo niente della moda, non sapevo chi fossero i fan del momento, le musiche moderne. Non sapevo nemmeno ballare, mi era dunque difficile intavolare con lei un qualsiasi discorso che la interessasse, e nemmeno invitarla in posti giovanili.
Olga, sua madre, mi stimava molto e io la ricambiavo, ciò mi dava l'opportunità di frequentare spesso la loro casa, ed ero accolto come uno della famiglia.
Una sera, mentre mangiavo da solo in un piccolo ristorante, ritrovai Ferruccio. Lo vidi passare per la strada e subito corsi fuori a chiamarlo. Fu un vero piacere ritrovarlo.
Mi presentò sua moglie, dicendomi che si erano appena sposati. Li invitai al mio tavolo dove continuammo a chiacchierare per alcune ore. Mi spiegò che al momento vivevano insieme in una camera d'hotel perché non avevano denaro sufficiente per affittare un appartamentino. Uno lo avrebbero trovato ma non avevano la caparra da anticipare al proprietario. Mi offersi di pagarla io e di aiutarli a sistemarsi.
Il fervore con il quale aiutavo gli amici era dovuto certamente alla sincera amicizia che sentivo per loro, tanto sincera quanto in contrapposizione risentivo della mia solitudine e del bisogno di avere anch'io una famiglia. La vita nomade che conducevo ormai da tanti anni non aveva più un senso preciso. Avevo un buon lavoro, ma avrei voluto imitare i miei amici nel crearmi una famiglia. Desideravo avere una dimora fissa, stabilirmi ad Algeri, cosa che sarebbe stata prettamente realizzabile se fossi piaciuto ad Anna Maria. Il guaio fu che, più cercavo di piacerle, meno le piacevo. Preferiva i ragazzi moderni che non mancavano di farle la corte, mentre io al contrario, piacevo a ragazze che non erano di mio gusto, almeno non da sposarle. C’era poi il fatto che restavo ad Algeri solo di tanto in tanto, e mi era difficile stabilire una amicizia più profonda con Anna Maria, siccome per la gran parte del tempo ero nel Deserto.
A vacanze finite dovevo ritornare nel Sahara dove occorrevano alcuni giorni per riambientarsi al caldo tremendo e i primi giorni erano i più duri. La sete diventava cronica, si aveva sempre voglia di ingurgitare borracce intere di bevande senza mai esseri sazi, anche quando lo stomaco stragonfio sembrava scoppiare. Certo era necessario bere per compensare la continua sudorazione del corpo, era consigliabile bere poco e spesso, ma era difficile staccare la bocca dalla borraccia quando la sete e il gran caldo tormentavano tutto il giorno. Per questo molta gente si beccava spesso della malattie renali o del fegato, o ancora delle deformazioni dello stomaco.
Durante le nostre lunghe perlustrazioni eravamo protetti dal sole solo dal tettuccio della macchina, che trasformava l'interno in un forno crematorio. Tra mezzogiorno e le sedici si doveva normalmente restare a riposo sotto le tende, ma anche qui, mancando quella ventilazione seppur scottante dell'esterno, il corpo si trasformava in una sorgente di sudore. Coricarsi dieci minuti sulla brandina a quell'ora era come rinchiudersi in un forno acceso, il sudore colava abbondante lasciando sulle lenzuola l'impronta bagnata del corpo.
Agli scorpioni, alle tarantole, alle numerose vipere a corna stavamo molto attenti, anche se vi eravamo abituati, non era difficile sorprenderle mentre gironzolavano attorno alla tenda in cerca di un passaggio per entrarvi. Non era difficile, sollevando un fusto o una cassa trovarne sotto una intera covata e quando si trattava di vipere bisognava stare attenti perché erano capaci di spiccare dei salti inattesi e il loro veleno non perdonava.
Mi capitò a volte di addormentarmi in mutandine sulla branda ed essere svegliato dal solletico causato da uno scorpione che passeggiava lentamente sulla pelle. Fortunatamente al campo eravamo muniti di siero anti veleno, ma devo dire che stranamente non fu mai morso nessuno. Solo verso le ventidue si cominciava a respirare, e la brezza notturna dopo tanta calura era un vero balsamo di sollievo.

Lavoravo alla stessa società da pocomeno di due anni. La rivoluzione algerina volgeva al termine, e la guerriglia era ormai generalizzata. In montagna, pianura o città, vivevano tutti nel terrore; De Gaulle, vedendo che non c’era più niente da fare per mantenere l'Algeria colonizzata con la forza, neppure con la politica di pacificazione, nel suo ultimo discorso aveva dichiarato improvvisamente di voler lasciare l'Algeria agli algerini. Come d'incanto, la maggioranza del popolo musulmano che ancora sosteneva la causa francese credendo che fosse un sostegno indistruttibile, si trasformò in un nuovo esercito di eroici liberatori del paese. Ma i coloni non erano d’accordo con De Gaulle, e non intendevano mollare i loro beni che per loro significava perdere tutto, dopo che per generazioni avevano sì accumulato, ma anche lavorato. Partire significava perdere tutto e ricominciare da capo, perciò con l'aiuto di alcuni Generali venne formata la O.A.S. (Organizzazione Armata Segreta). Tale organizzazione intendeva continuare la lotta contro i rivoluzionari anche a costo di disubbidire allo Stato francese.
Nelle città, ancor più che nelle campagne, iniziò una lotta spietata tra arabi ed europei. Ci si combatteva a vista riconoscendosi gli uni e gli altri dal colore della pelle o dalle sembianze vestimentali. Ci si sparava a vista senza cercare di sapere di chi si trattava, anche gli attentati si moltiplicavano ovunque.
Gli europei erano numericamente inferiori, ma erano più uniti e meglio organizzati, appoggiati nelle loro azioni dai migliori corpi d'Armata tra cui, la Legione Straniera e sostenuti dalla gendarmeria che non aveva ancora ricevuto l'ordine di sgomberare il paese; mentre gli arabi nella città erano costretti a restare rinchiusi nelle loro case. Ciò malgrado riuscivano a sfuggire alla sorveglianza e compiere azioni terroristiche.
I più bellicosi tra gli europei erano i giovanissimi, dai quattordici ai diciotto anni, trasformati per l'occasione in veri Killer. Tanta era la freddezza e la disinvoltura con cui uccidevano a sangue freddo, lasciando stupiti anche gli incalliti come me che, malgrado i miei cinque anni di Legione non sarei mai stato capace di uccidere così spietatamente.
Da tanto putiferio cercavo di stare alla larga, passando la maggior parte del tempo nel Deserto, e quando mi trovavo ad Algeri uscivo il meno possibile dall'appartamento in cui abitavo e che mi ero acquistato da poco. Certo non era facile restare neutri se anche nel Deserto gli indigeni che avevano sentito parlare di indipendenza cominciavano a tenere testa agli europei e gli ubbidivano sempre con maggiori difficoltà. Lungo la strada si poteva incappare in qualsiasi momento in un sequestro, in città bastava svoltare l'angolo sbagliato per sentirsi tirare addosso una sventagliata di mitra, ma più che essere prudente non sapevo cosa avrei potuto fare.
Al campo continuavo a portare in giro il solito geologo, tranne quando ero designato per lunghi viaggi di collegamento in oasi o in villaggi lontani. Habist continuava ad avere dei momenti alternati d'umore a seconda dei risultati del suo lavoro, dei ritrovamenti di oggetti preistorici, o a seconda se gradiva o no le manovre che facevo con la macchina.

Vi è stato un periodo durante il quale per esaminare una zona ad oltre ottanta chilometri dal campo, dovevamo obbligatoriamente attraversare una catena di dune larga più di un chilometro ed alta un centinaio di metri nella quale trovammo un passaggio dopo due giorni di ricerche. Partivamo al mattino presto con due Land Rover, io e Habist in una, il secondo autista con Cornelius l'altro geologo nell'altra.
Attraversare tutta quella sabbia era ogni giorno un'avventura tra il comico e il tragico; bisognava innestare le quattro ruote motrici e partire in terza a tutta velocità per evitare di piantarsi nei punti più molli. A volte si passava la giornata a spalare sabbia ed avanzare pochi metri per volta mettendo man mano due lamiere apposite davanti alle ruote, anche se prima di avventurarmi tra le dune prendevo la precauzione di sgonfiare le gomme almeno del cinquanta per cento, per rigonfiarle poi sul terreno duro mediante una falsa candela che aspirando l'aria da un pistone la tramandava alla gomma tramite un tubo flessibile.
Quando riuscivo a passare le dune senza piantarmi, Habist mi elogiava con foga, "Ya” diceva, “foi grrrrante autista, foi mollllto prafo! Necessario aumentare paca !!!", e sprizzava allegria da tutti i pori, specialmente se nel frattempo l'altra macchina si era piantata. Quando invece toccava a noi rimanere piantati, gli prendeva una crisi di nervi, camminava nervosamente intorno pestando i piedi e imprecando in tedesco, mentre io, rassegnato, spalavo per ore, e lo sentivo ripetere: " Yà, foi non capace!!! Necessario fare alldro laforo!!!", e continuava poi a rimuginare parole e bestemmie.

Un mattino, precedendo l'altro veicolo, mi inoltrai tra le dune col geologo senza pensare che il forte vento della notte scorsa avrebbe spostato la posizione delle dune. Come al solito acceleravo a più non posso zigzagando in tutti i sensi per imboccare i passaggi migliori. Come se quella difficoltà non fosse bastata, vi era l'altro geologo che incitava il suo autista a sorpassarci, come il mio faceva con me. Mentre l'altro veicolo si apprestava ad affiancarmi per sorpassare ad un tratto si piantò di colpo, con grande gioia di Habist che mi guardava ammirato durante la gimcana che facevo in quel mare giallo, accelerai a fondo rischiando di far uscire i pistoni dal motore per non affondare nei punti più teneri e badando contemporaneamente a ripercorrere l'itinerario abituale.
Habist, più eccitato e soddisfatto del solito, sia perché gli altri si erano piantati, sia per le mie manovre, mi urlava i soliti complimenti con quel suo euforico grosso faccione rosso, fregandosi vigorosamente le mani e battendo i piedi sulle pedane dalla soddisfazione. "Yà, foi grrrrrande autista!!!" urlava contento tra il baccano del motore, ed io filavo a tutta pompa sterzando e virando per evitare gli ostacoli che si presentavano davanti invisibili fino all'ultimo instante. Lui che non sapeva cos'altro esprimere continuava a ripetere:"Yà yà,foi grrrrr". Questa volta non ebbe il tempo di finire la frase che la macchina si trovò improvvisamente sospesa nel vuoto, e dopo un salto che non finiva più, il cofano sbatté violentemente al suolo e si rialzò quasi in verticale per ricadere e fermarsi finalmente dopo qualche sussulto ancora. Durante il furioso sconquasso il grosso Habist era stato sbatacchiato in tutti i sensi. Il suo berretto sportivo, i suoi grossi occhialoni da vista, i sacchettini dei campioni di sassi, la sua carta topografica, tutto volava per la cabina mentre con le mani cercava disperatamente un appiglio a cui aggrapparsi. Quando tutto ritornò calmo mi tranquillizzai vedendo Habist uscire intero dalla macchina anche se imprecava fulmini e saette in tedesco. Poi finì col dire: " Yà, cossa fare foi autista!!! Necessario fare alldro laforo!!! Foi non capace!!! Mentre io giravo attorno alla macchina per controllare che non vi fossero rotture, ma soprattutto per non fargli vedere che mi scappava da ridere.
Anche se non fumava, il pancione portava sempre con se un pacchetto di sigarette per offrirmene una nelle grandi occasioni. Ad esempio quando gli trovavo una punta di freccia o un bel pezzo preistorico.
Me ne offrì una anche quel giorno che si spezzò la tubazione della benzina che dal serbatoio posteriore arrivava al motore posto anteriormente. Non avevo i mezzi per ripararlo e ci trovavamo a settanta chilometri dal campo. Avevo perso tutta la benzina del serbatoio, allora strappai un pezzo del tubo di gomma e lo collegai alla pompa della benzina del motore, immergendo l'altra estremità in uno dei fusti di riserva pieni che porsi sul parafango, poi pregai Habist di tenere stretto il fusto stando seduto sul parafango stesso. Mentre ci avviammo pian piano verso il campo, il geologo che già si era rassegnato ad incamminarsi a piedi con le provviste, mi costrinse a fermarmi dicendo:"Foi grrrrande cenio, neccessario fumare!" e mi offrì una sigaretta. Certo che se il guasto non fosse stato riparabile, non avrei seguito Habist nella lunga marcia a piedi poiché l'esperienza me lo sconsigliava. Restando accanto al veicolo, magari seduto o sdraiato nella sua ombra, vi è sempre qualche possibilità di scampo, infatti il processo di disidratazione del corpo in quel caso si rallenta notevolmente. Inoltre si è più facilmente reperibili alle ricerche aeree e l'acqua del radiatore può rappresentare un'ultima risorsa di salvezza. Non dico che settanta chilometri non siano percorribili se sono percorsi con calma, camminando possibilmente nelle ore meno calde e con una meta esatta. Possono essere pericolosi se vengono percorsi come intendeva fare Habist, in pieno caldo.
Poco prima in quelle zone due turisti inglesi, marito e moglie, vi avevano lasciato la pelle. La loro macchina si era piantata nella sabbia e non riuscendo più a smuoverla, avevano abbandonato il veicolo per avventurarsi a piedi tra le dune sperando di trovare qualche accampamento. La loro auto fu trovata una settimana dopo da un aereo il quale avvisò via radio il campo più vicino. Da lì partì un gruppo di soccorso che raggiunse l'auto abbandonata e si mise poi a seguire le tracce sulla sabbia ancora visibili perché non vi era stato del vento. Dopo qualche diecina di chilometri cominciarono a trovare dei vestiti, poi una borraccia vuota, degl’altri vestiti e il cadavere della donna. Più lontano quello del marito, entrambi completamente nudi con gli occhi sbarrati verso il cielo.
Non abbandonare il veicolo, questa è una delle regole primarie che tutti coloro che hanno vissuto a lungo nel Deserto conoscono. Ma non sempre si riusciva a vincere l'indescrivibile angoscia che nel pericolo spinge ad agire e a fare qualcosa.
Se perdersi nel Deserto o abbandonare la macchina rappresenta un grave pericolo, non meno pericoloso era il proseguire un viaggio durante una tempesta di sabbia.
E’ necessario prima di qualsiasi viaggio privato, avvertire le autorità locali segnalando loro l'itinerario che si voleva percorrere e il giorno di partenza e quello probabile di arrivo da una località all'altra.
Un giorno, mentre ritornavo solo da Ain Salàh su una pista appena visibile, mi sorprese una tremenda bufera di sabbia, in breve il sole scomparve dietro un cielo grigiastro. Nonostante i finestrini della land rover fossero ben chiusi, la polvere più fine penetrava ugualmente all'interno attaccandandosi alla mia pelle sudata. Erano le sedici e sembrava già notte, per un po’ continuai ad avanzare adagio cercando di non uscire dalla pista pur sapendo che anche una lenta progressione poteva rappresentare un pericolo; ma la bufera che andava rapidamente aumentando di intensità mi creava attorno un muro di sabbia che mi costrinse a fermarmi rassegnato a passare la notte sul posto.
Verso mezzanotte, la sabbia trascinata a grande velocità dal vento smise di levigare la carrozzeria della macchina, e al suo posto cominciò a piovere a dirotto e forse fu proprio la pioggia a bloccare la sabbia al suolo.
Non avevo mai visto piovere nel Sahara e quello sembrava addirittura un diluvio che si calmò solo al mattino. Attorno a me tutto era cambiato, vi erano dune dove prima era pianeggiante, mi trovavo in mezzo a un lago immenso e la pista non la vedevo più perché anch'essa era sommersa dall'acqua che arrivava oltre metà ruote.
Preoccupato scesi dalla macchina per valutare meglio la situazione e per saggiare il terreno attorno con i piedi scalzi. Dalla parte esposta al vento, la vernice del veicolo era in parte levigata mentre dalla parte opposta vi si era formata una piccola duna di sabbia. Per fortuna riuscivo ad orientarmi da una lunga catena di dune che avevo sulla destra e costeggiandola avrei dovuto arrivare al campo. Il vento non soffiava più, c’era di nuovo il sole e il terreno attorno a me sembrava ancora abbastanza duro per sostenere il peso della macchina. La distanza che mi separava dal campo non doveva oltrepassare i trenta chilometri, perciò decisi di rimettermi in marcia al più presto prima che l'acqua filtrasse nel terreno e lo rendesse impraticabile. Rullavo fiancheggiando il più vicino possibile la catena di dune sapendo che con l'acqua, la sabbia al contrario del terreno si indurisce.
Solo dopo parecchie ore arrivai al campo, lì nessuno aveva dormito. Tre tende erano scomparse, le altre erano a brandelli o afflosciate al suolo. Qualche giorno dopo il Deserto si era trasformato in una immensa prateria coperta da una fitta vegetazione con tanti fiorellini blu che ricopriva interamente le dune e il terreno come un'immenso manto colorato. Venti giorni più tardi il manto era scomparso e il Deserto aveva ripreso il suo aspetto abituale.
Nel luglio "62 risalii ad Algeri in vacanza. Le cose andavano male, Antonio mi raccontò che ogni giorno stando alla finestra di casa o uscendo per la strada, vedeva uccidere qualcuno. Anche il giorno prima aveva visto in una garitta di guardia della gendarmeria situata di fronte ad una delle sue finestre, un mucchio di cadaveri arabi trovati forse dai gendarmi durante la notte nei paraggi. I giornali poi, non facevano che riportare notizie orrende. In cascine abbandonate o in fosse di calce viva venivano trovati diecine e diecine di cadaveri europei mutilati e torturati. Venticinque arabi erano morti per lo scoppio di un ordigno nei pressi del porto di Algeri. Alla discesa di un'autobus, un giovane appartenente all'O.A.S. aveva ucciso a colpi di mitra diciassette persone tra uomini e donne per rappresaglia all'uccisione di tre europei accoltellati nel centro di Algeri. Lungo la strada venivano trovati di giorno e di notte corpi senza vita o sgozzati, e la lista era lunga benché io leggessi la cronaca di un solo mattino e riguardante solo Algeri.
Appena calava la notte nei quartieri europei la gente si metteva ai balconi munita di casseruole o altri oggetti metallici e iniziava a scandire battendo su tali oggetti l'Al-ge-rì---fran-cais. E il concerto si spandeva rapidamente in tutti i quartieri in un frastuono impressionante, mentre in lontananza, dai quartieri arabi dalla Casba in particolare, rispondevano gli arabi con tamburi e casseruole l'Algerì-algerienne, come una promessa di morte per il futuro.
Ma gli arabi se ne stavano rintanati nei loro quartieri perché il predominio era ancora quello europeo, e non potevano uscire senza rischiare di farsi ammazzare col pericolo tuttavia che il loro reclusorio si trasformasse in una bomba che poteva scoppiare da un momento all'altro, visto che nei loro quartieri non ricevevano più provviste alimentari.
Appostati nelle alture attorno ai loro quartieri vi erano cecchini europei che li tenevano continuamente sotto tiro costringendo gli arabi a nutrirsi per il momento solo dei loro animali domestici, ma non avrebbero resistito a lungo.
Le immondizie ammucchiate davanti alle loro porte, che nessuno osava sgomberare, avevano già cominciato a provocare casi di malattie infettive, mentre nei quartieri europei, i giovani si erano organizzati per assicurare le funzioni di nettezza urbana e i negozi erano ancora aperti e regolarmente riforniti.
Il centro di Algeri era quasi tutto europeo e la gente circolava regolarmente. Di sera specialmente, bastava che un'auto scandisse col clacson il tipico Al-ge-rì-Fran-cais, che subito altre macchine gli si incolonnavano dietro scandendo ritmicamente con tutti i clacson in un coro assordante. La prima auto in testa scandiva L'Al-ge-rì e tutti gli altri in coro rispondevano: Fran-caias. Formavano così lunghe colonne che sfilavano per tutte le vie del centro tra gli applausi dei passanti e da quelli numerosi che si affacciavano alle finestre.
I pochi arabi che si azzardavano lungo le vie alla ricerca di cibo o per una commissione urgente, venivano immediatamente segnalati, una macchina sbucava da chissà dove, gli si infilava dietro e da uno dei finestrini sporgeva immancabilmente la canna di un'arma che abbatteva l'individuo.
Arrivato al Algeri da pochi giorni e ignaro della reale situazione, successe anche a me qualcosa di simile. Stavo per entrare in casa mia, quando una vecchia macchina nera arrivata da una strada vicina rallentò un attimo per consentire a qualcuno all'interno di scaricarmi addosso una raffica di mitra, poi accelerò e scomparve. Io mi ero istintivamente buttato a terra mentre le pallottole si conficcavano nel muro e nella porta di casa.
Poco dopo, mentre passeggiavo in centro lungo la Rue d'Islì, capitai dentro ad una retata effettuata dai gendarmi C.R.S., un corpo rimasto fedele al vecchio De Gaulle, i quali, vedendo l'audacia e l'attivismo dei giovanissimi nel proseguire la guerriglia, avevano ordine di arrestare indiscriminatamente tutti i giovani europei, dai quattordici ai venticinque anni per rinchiuderli in un campo alfine di azzoppare in questo modo l'Armata Segreta.
Mi rilasciarono il giorno seguente dopo che ebbero la certezza che lavoravo nel Sahara. Fu proprio mentre facevo ritorno a casa mia, che mi accorsi ad un certo punto di camminare dietro ad un'arabo con una grossa valigia.
Probabilmente arrivava dal Deserto e come me non era al corrente di come stavano le cose, dato che pareva camminasse tranquillo senza nemmeno voltarsi. Io che avevo preso una certa distanza da lui, mi voltai per vedere se da qualche parte spuntava una delle solite macchine di "becchini", non ne vidi, c’era solo un ragazzino dietro a me sui quattordici-quindici anni che camminava con aria da duro. Aveva le mani sprofondate nelle tasche di un impermeabile chiaro, la sigaretta in bocca. Lo guardai e mi fece cenno di scostarmi, mentre dall'apertura dell'impermeabile spuntò la canna di un mitra. Si avvicinò un po’ più all'arabo e gli mollò una piccola raffica nella schiena. Il povero malcapitato cadde senza un lamento mentre il ragazzo tranquillo, sempre con la sigaretta in bocca, raccolse la valigia e se ne tornò tranquillo sui suoi passi. Alcuni passanti europei che avevano assistito alla scena, gli sorrisero compiaciuti.
L'arabo che credevo morto, dopo pochi instanti riprese a muoversi e con fatica cercò di rialzarsi. Accorsi per aiutarlo ma fui trattenuto da un vecchio europeo che mi mise in guardia dal farlo, perché così facendo avrei messo a repentaglio la mia stessa vita. Intanto l'indigeno, seppur pieno di sangue, riuscì a trascinarsi faticosamente verso un farmacia vicina per chiedere aiuto al farmacista, ma lui, sulla soglia gli impedì l'ingresso dicendogli di rivolgersi al commissariato. L'arabo si guardò per un instante intorno smarrito, non sapendo a chi chiedere aiuto, barcollò ancora per stramazzare al suolo e rimanervi immobile.
Avrei dovuto essere vaccinato più degl'altri a certo orrori, ma quel poveraccio mi faceva veramente pena, in quel momento però, o si era da una parte o si era dall'altra. Anche a me avevano sparato senza sapere chi fossi, in quel luogo si era europei contro arabi e basta.
In quella grottesca e assurda macellazione di gente, in quell'odio senza fine, nell'incosciente incoraggiamento ad uccidere per chi non poteva farlo egli stesso,
la cosa che mi stupiva maggiormente era il constatare la facilità con cui la gente si abituava alle atrocità più aberranti. C’era dunque tanta malvagità repressa in noi per "normalizzare" in così breve tempo anche i più assurdi massacri? Anche Anna Maria che non aveva mai visto ne sentito parlare di cose tanto orrende, vi ci era abituata e trovava normalissimo assistere all'uccisione di qualcuno. Anche lei era penetrata in quella generale mentalità senza meravigliarsi che anche tra alcuni suoi amici vi fossero degli inscritti all'O.A.S. e considerava compiaciuta il fatto che si vantassero di aver ucciso. Me lo diceva anche sua madre che, una settimana addietro le due donne si erano trovate in una situazione analoga alla mia. Si erano accorte di camminare dietro ad un'arabo in un quartiere della periferia, Anna Maria si voltò indietro per vedere se già vi era il Killer nei paraggi e c’era. Infatti, senza cessare di chiacchierare con la madre, fece un sorrisetto al giovane che le seguiva, visto che aveva la sua stessa età, mentre scostava la madre dalla traiettoria di tiro tirandola per un braccio. Al colpo di pistola che ne seguì, si girò appena per vedere la vittima cadere a terra.

Vedendo che la decisione di mollare l'Algeria non era rispettata, De Gaulle schierò l'esercito rimastogli fedele contro i membri dell'O.A.S. Questi, per evitare di battersi contro altri francesi, con il Generale Salàn in testa, si decisero a cessare la guerriglia. Per questo motivo i porti e gli aeroporti vennero presi d'assalto e si formarono code interminabili di europei che volevano partire. Si ammassavano tutti alle basi di partenza formando lunghe code che duravano giorno e notte.
Per la mancanza di posto nessuno poteva portare più di due valige, mentre gli arabi che cominciavano ad uscire dalle loro case si davano alla pazza gioia. Sgozzavano, rubavano, torturavano e si impossessavano di tutto ciò che trovavano: case, terreni, fabbriche, ville, auto e valori di ogni genere.
I pochi europei rimasti ancora nelle loro case venivano trucidati o nei migliori dei casi scacciati col divieto di portare via il minimo oggetto, la minima cosa. Ora, dicevano gli arabi, è tutto nostro.
Non vi era più autorità, non vi erano più leggi e gli arabi erano liberi di sfogare i rancori e le antipatie per tanto tempo represse. Uccidevano chi volevano, quando volevano, e ovunque regnava panico e caos. Gli europei avevano rotto il blocco granitico col quale tenevano ancora in pugno gli arabi ed era il fuggifuggi generale. I più temerari cercavano ancora di svendere a prezzi derisori i loro oggetti prima di scappare ad altri europei che però avevano gli stessi desideri, mentre altri gettavano dalle finestre mobili e televisori e tutto quello che non potevano portarsi dietro per non lasciarli nelle mani degl’arabi. Vicino a casa mia, una serva indigena, fedele ai padroni europei per più di vent’anni, non esitò ad uccidere tutti compresi i due figlioletti per impossessarsi dei loro beni e della loro casa.
Se il massacro non era più generalizzato era solo perché in certi quartieri reggeva ancora l'O.A.S. e riusciva a farsi temere.
Se i "piedi neri" (così chiamavano gli europei d'Algeria) avessero ubbidito a De Gaulle, l'indipendenza forse sarebbe stata concessa più gradatamente e non sarebbe avvenuto quel caos. Mentre l'O.A.S., costretta a mollare d'un colpo, fece crollare la diga e il panico si riversò in tutta l'Algeria.

Antonio decise di mandare Anna Maria al sicuro in Italia, io partii per il Sahara sperando che laggiù le cose andassero meglio. Partii con la mia macchina, un Aronde P60, ma appena uscito da Algeri capitai in un posto di blocco militare. Si era ormai talmente abituati alle perquisizioni e ai controlli di ogni sorta, che quello non mi sorprese. Mi fermai dietro ad una lunga coda di macchine aspettando il mio turno senza far caso che i militari addetti al controllo erano scuri di pelle e mal vestiti. Appena me ne accorsi capii che erano Fellagà, i quali, essendo l'indipendenza ormai prossima, cominciavano a scendere dalle montagne e a mostrarsi liberamente.
Quando arrivò il mio turno mi fecero scendere, perquisirono a fondo la macchina e mi chiesero dove fossi diretto. Controllarono accuratamente il mio nome con quelli di una lunga lista che avevano in mano, poi finalmente mi fecero cenno che potevo passare. Tirai un gran sospiro di sollievo, tra loro avevo notato un camion con a bordo degli europei. Certamente i loro nomi figuravano sulla lista e non li portavano certo a fare una passeggiata.
Poco prima di arrivare ad Ouarglà incappai nuovamente in un b locco stradale dei Fellagà che avevano sbarrato la strada. Questa volta ero solo e loro erano armati fino ai denti, come prima cosa mi chiesero i documenti e mentre uno li controllava gli altri perquisivano la macchina.
Quello che controllava la mia patente e che sembrava essere il capo, verificava se il mio nome fosse stato tra quelli numerosi nella lista che teneva in mano. Ad un certo punto interruppe la lettura e si rivolse a quelli che perquisivano la macchina parlandogli in arabo e questi cessarono la perquisizione. Mi puntarono le armi ordinandomi con segni e con parole che non capivo di salire su una delle loro auto. Cercai di prendere tempo fingendo di non capire, ma invece di perdersi in spiegazioni, uno di loro mi afferrò per un braccio e mi trascinò verso una macchina mentre gli altri si fecero attorno minacciosi con le loro armi puntate. Fu proprio in quel momento che pensavo fosse giunta la mia ora, che uno dei Fellagà urlò qualcosa segnando agl'altri che stavano sopraggiungendo alcune camionette di gendarmi. Quello che doveva essere il capo urlò un'ordine e si precipitarono tutti alle loro macchine partendo in tromba. I pochi gendarmi rimasti ancora in servizio mi raggiunsero e quando spiegai loro l'accaduto mi risposero che i blocchi stradali ormai li facevano ovunque, e proprio nel posto in cui eravamo, il giorno prima avevano rinvenuto dei cadaveri di europei.
Per noi, disse uno dei gendarmi, è ormai impossibile tenerli sotto controllo, tanto più che tra due giorni verrà dichiarata l'indipendenza e avranno tutto in mano loro.
I gendarmi se ne andarono e io ripartii nella direzione opposta.
Mentre percorrevo solitario l'interminabile strada verso il Deserto, mille domande mi tormentavano.
Per un pelo mi ero salvato, ma per quale motivo ero su una delle loro liste? Forse perché ero stato nella Legione? Impossibile, chi gli avrebbe mai dato tutti i nomi degli ex legionari? E volendo ucciderli tutti avrebbero dovuto compiere dei massacri, siccome ovunque vi erano ex militari di ogni corpo dell'esercito. Poi, un ricordo affiorò alla mia mente tralasciando ogni mio altro dubbio. Già, ora ricordavo, ecco perché ero sulla loro lista. Ricordai una valigetta lasciata in casa di un amico ad Algeri prima di partire per il Sahara assieme a lui. Questo mio amico partì lasciando sola nel suo appartamento una giovane araba con la quale conviveva. Dopo tre mesi di lavoro ce ne tornammo ad Algeri assieme e ci accorgemmo che la ragazza se ne era andata portando via ogni cosa con se, compresa la mia valigetta all’interno della quale, oltre a documenti personali, conservavo molti ricordi della Legione, tra cui, una divisa, le medaglie, anelli e braccialetti d'argento trafugati durante le perquisizioni. Conservavo inoltre delle foto e degli indirizzi, ma soprattutto vi erano delle foto scattate durante le più importanti operazioni militari, comprese quelle riguardanti la famosa "carta bianca” avvenuta nei pressi di Djigelly, e quelle erano tremende...”Porca vacca!” se avevano in mano quella valigia ero fregato. Fortunatamente arrivai fino ad Hassi Messaoud senza incappare in altri blocchi stradali e fu proprio in quel luogo che trovai il vice direttore della mia società, il quale mi disse che, visto l'improvviso degradarsi della situazione, la società aveva deciso di sospendere momentaneamente i lavori in attesa di vedere se si placava il subbuglio. Lui stesso stava per andarsene, come del resto i geologi. Al campo sarebbe rimasto solo il cuoco, il meccanico e un topografo con cinque indigeni per fare la guardia. Nel frattempo tutti i lavori erano sospesi. “Se vuoi andare ugualmente” mi disse, “avrai una paga ridotta ma qualcosa percepirai comunque, altrimenti fai come noi, vai a passare una vacanza in Europa. Se ti terrai in contatto, ti sapremo dire quando ricominceremo".