Parte IV
Le potenti scariche elettriche non tardarono a dare dei risultati, vennero
fatti nomi di persone indigene fino ad allora insospettate, che a loro
volta, con lo stesso procedimento dettero altre indicazioni precise.
In base alle informazioni così ricevute, si fecero partire in camion
attraverso la solita sconfinata steppa. Viaggiammo per un giorno intero
per accamparci a sera, seminascosti da due monticelli con l'interdizione
di accendere dei fuochi. Riprendemmo la marcia al mattino presto, a piedi
verso la cresta a lama di coltello di un monte alto circa seicento metri.
La salita era molto ripida e come sempre, il terreno era cosparso di rocce
e cespugli.
La mia squadra saliva in testa alla compagnia e la mia équipe fu
disegnata per salire in testa alla squadra.
A metà salita, i componenti del mio equipe cominciarono ad attardarsi,
io salivo solo davanti a tutti con passo lento ma costante, sperando di
sollecitarli a seguirmi; ma ogni volta che mi giravo indietro li vedevo
sempre più in difficoltà, trasudati, tossicanti che sputavano
fuori l'alcool da tutti i pori. Mi fermai per attenderli e per dir loro
di non salire ammucchiati come pecore, di fare ancora un piccolo sforzo,
ma le mie parole erano per loro più che altro un pretesto per fermarsi
ad ascoltarle.
La cresta del monte non era più che a un duecento metri, per questo
mi decisi a proseguire da solo intenzionato a fermarmi sulla cima ad aspettarli.
Mi trovavo ormai distaccato di una cinquantina di metri, davanti a tutti,
col mitra dietro le spalle appoggiato sullo zaino, le mani aggrappate
alla cinghia dell'arma intento a contornare una grossa roccia, al di là
della quale, mi trovai a tu per tu con un gruppetto di Fellagà
rimasti isolati dai compagni. Avevano anch'essi gli zaini e l'arma a tracolla.
Eravamo ad una ventina di metri gli uni dall'altro che per qualche instante
ci guardammo immobili stupiti e increduli, poi, nello stesso instante
come ubbidendo ad un'ordine, realizzammo che eravamo lì per ammazzarci.
Cominciarono a togliersi il fucile dalle spalle, io il mitra, li caricammo
insieme e....le mie corte rapide raffiche partirono per prime, una pallottola
mi sfiorò la testa e li guardai sobbalzare a terra annaspando per
qualche istante per poi rimanervi immobili. (Uno di loro si lasciò
cadere con gli altri fingendosi morto, in seguito venne fatto prigioniero).
Diedi una rapida occhiata intorno, poi puntai l'arma verso la cresta del
monte che si ergeva minacciosa a poco più di un centinaio di metri
al di sopra di me e mentre cercavo in fretta un riparo, sentii una respirazione
affannosa poco lontano che mi fece voltare di scatto. Era il sergente
Raifer che sbucando da dietro una roccia mi chiese perché avevo
sparato, gli indicai i corpi a terra e lui si voltò a dare ordini
ai nostri che salivano di piazzarsi ai ripari.
Non terminò di dare gli ordini, che dalla cresta vicina iniziò
una grandinata di spari. Quattrocento Fellagà erano appostati sulla
cima e aspettavano che la compagnia salisse ancora un po’ per falciarla,
probabilmente si erano ricongiunti con altri ribelli.
Mi resi conto che, senza volerlo avevo mandato all’aria i loro piani.
Gli uomini della mia équipe erano intanto giunti al completo, la
vicina cresta quasi a strapiombo su noi, rendeva i nostri ripari poco
sicuri nonostante si cercasse di stare appiattiti dietro le rocce.
Mentre cercavo di centrare le teste che affioravano dalla cresta da dove
partivano numerosi spari, Preskar e Martèll si davano da fare contro
un cespuglio situato a tre o quattro metri al di sotto della cima, dal
quale partivano rabbiose sventagliate di un'arma automatica.
Bourìs era l'unico che non vedevo nei pressi, ma sapevo che era
nascosto poco lontano più al sicuro. Kùnitz, seduto in una
buca accanto a me, masticava lentamente qualcosa grugnendo di tanto in
tanto mentre osservava il disperato tentativo di Preskàr e Martèll
che non riuscivano ad eliminare il mitragliatore nel cespuglio.
Li guardava con disappunto rimproverandoli di tirare troppo in basso.
Infine persa la pazienza, prese in mano il suo fucile, l'unico nella nostra
équipe, e corse dai due dicendo : "Foi non capace farli fuori,
togliere il culo da lì, tirare io". Con calma infilò
una granata sulla punta della canna del suo fucile lanciagranate, poi
si alzò di scatto e tirò con l'arma al fianco..."Bum!!",
il cespuglio volò in pezzi. Ritornando al suo posto accanto a me
riprese la posa da osservatore ricominciando a ruminare, lo guardammo
sorpresi e lui si sentì in dovere di dire"Fisto?".
Mentre passavano lente le ore arrivarono quattro aerei T6 che iniziarono
a girare in cerchio al di sopra della cresta senza decidersi ad aprire
il fuoco, probabilmente nel timore di colpire anche noi.
Nella lontana pianura, era possibile vedere che altri camion si ammassavano
accanto ai nostri. Solo quando stava per calare la notte il nostro comandante
la compagnia ci avvertì di prepararci per l'assalto, aggiungendo
che bisognava occupare la cima prima della notte, anche se, attaccare
in un terreno simile era rischioso poiché i ribelli avrebbero potuto
stenderci come birilli.
Da un po’ gli spari erano cessati. Anche Bourìs era finalmente
arrivato tra noi, nel vederlo intrufolarsi quasi furtivamente non riuscii
a trattenermi dal mollargli un calcione nel sedere, sebbene capissi benissimo
la sua paura dato che neppure io avevo la stoffa dell'eroe, ma doveva
pur capire che così facendo metteva maggiormente in pericolo anche
la vita degl'altri, perché più è debole lo sbarramento
di fuoco più aumentano le probabilità di beccarsi una pallottola,
e se si deve rischiare, lo si deve fare insieme. Ma Bourìs non
la intendeva così, protestava minacciando chissà quali ritorsioni.
Avrei potuto segnalare il fatto al caposquadra accennando all'abbandono
del suo posto ad ogni pericolo, ma avrebbe ricevuto una punizione che
poteva andare da una diecina di giorni al "Tombò", punizione
molto corrente nella Legione che consiste nel far scavare una tomba esposta
in pieno sole, profonda settanta centimetri nella quale il punito deve
rimanervi coricato notte e giorno per un tempo variabile a secondo dell'entità
della punizione, a pane e acqua, e a volte senza bere. Oppure lo avrebbero
fatto marciare nei momenti di maggiore pericolo, solo davanti a tutti
armato di sole due bombe a mano. Per questo non mi andava di farlo, anche
perché certi metodi li avevo sempre detestati.
Il lancio di un razzo interruppe le mie riflessioni, era il segnale d'attacco.
Saltammo fuori dai ripari aspettandoci una fitta gragnola di proiettili,
ma ben decisi a restituirne il più possibile. Con sorpresa generale
non successe niente, eppure eravamo sotto il loro tiro, cosa aspettavano?
Arrivammo sulla cresta increduli, non vi era più nessuno, solo
dei cadaveri che i loro compagni avevano abbandonato sul posto precipitandosi
giù lungo il versante opposto. Li vedevamo in basso fuggire inseguiti
da soldati senegalesi che li rincorrevano sparando e urlando come ossessi.
Ben presto le urla e gli spari si persero tra le rocce e ritornò
il silenzio assieme al calare della notte.
Al mattino due elicotteri ci portarono acqua e munizioni e ripartirono
prelevando quattro nostri feriti.
Ripartimmo di buon'ora all'inseguimento dei ribelli e solo dopo due giorni
li ricontattammo.
Erano le dieci del mattino, la terza squadra che si trovava in testa alla
compagnia, si scontrò con le loro retroguardie in un terreno piatto
ricoperto da crepacci e Alfa alta più di un metro. Questa volta
non era il terreno che di solito prediligevano, non era il cucuzzolo di
un monte. Con una manovra di accerchiamento ci portammo precipitosamente
a ridosso dei ribelli prendendo posizione ai bordi di un crepaccio profondo
poco più di un metro e ricoperto anch'esso da un folto strato di
Alfa.
Avevo appena finito di scaricare il mitra in direzione di una diecina
di Fellagà che ricurvi stavano tentando di filarsela uno dietro
l'altro, che mi apprestavo a innestare un nuovo caricatore. Scorsi nel
fondo del crepaccio proprio sotto di me alcune teste seminascoste dalle
erbe che mi inquadravano con grandi occhi spauriti, erano così
vicini che avrebbero potuto afferrarmi allungandosi un po' con le mani.
Riarmai in fretta il mitra e lasciai partire alcune sventagliate tra l'erba
che nascondeva i loro corpi, finche le teste scomparvero. Solo più
tardi seppi che avevano le mani legate.
Si trattava di alcuni componenti del "M.N.A."(Movimento Nazionale
Algerino) ed erano prigionieri del F.L.N. (Fronte Nazionale Liberazione),
ma come potevo saperlo? Un largo tratto di pianura si era trasformato
in campo di battaglia, i ribelli cercavano di disimpegnarsi sfuggendo
da un terreno a loro ostile. Erano assaliti da tutti i fianchi con armi
efficienti e dall'alto da aerei che li sterminavano con bombe al Napalm
e mitraglie. In quel luogo non vi erano rocce dietro cui nascondersi.
Lo scontro prese più che altro l'aspetto di una caccia all'uomo
che si concluse verso sera con un solo morto e sei feriti tra i nostri
contro oltre duecento morti dei loro.
Era notte quando risalimmo sui camion per rientrare su una piccola pista
che di notte si vedeva appena. Durante il rientro una camionetta 6-6 della
seconda squadra saltò su di una mina causando un morto e ferendo
tutti gli occupanti del veicolo. Il comandante la compagnia fece scendere
dai veicoli quattro nomadi che ci servivano da facchini per il trasporto
di munizioni facendoli piazzare nella buca causata dall'esplosione e ordinando
che venissero fucilati.
I prigionieri militari invece, sette in tutto, vennero consegnati il giorno
seguente nelle mani del "2°Bireau", accampato per l'occasione
sotto le tende ad una trentina di chilometri dal campo di battaglia, e
sottoposti ai trattamenti speciali per farli parlare.
I carnefici ottennero il loro scopo perché, mentre pattugliavamo
la zona ci arrivò l'ordine di ritornare sul luogo della strage
per perquisire uno ad uno tutti i cadaveri e cercare nelle loro tasche
dei documenti importanti.
Giunti sul posto scendemmo dai camion e avanzammo in linea su un largo
tratto di terreno, l'ordine era di perquisire i cadaveri che ognuno incontrava
sulla propria linea di marcia.
Erano ormai passati tre giorni dal loro trapasso e sotto quel sole cuocente
lo spettacolo era nauseante. Un odore pestilenziale si elevava dai corpi
oramai putrefatti. Erano gonfi e violacei e i vestiti li contenevano a
fatica.
Su ogni cadavere un nuvolo di insetti carnivori, una specie di maggiolini
neri, attaccavano le parti dei corpi denudate o lacerate infiltrandosi
tra le carni.
Qualche cadavere era sepolto in fretta solo a metà, tutto lasciava
pensare che qualcuno li stesse seppellendo, fuggendo al nostro arrivo.
Giravamo tra i cadaveri tenendo in una mano il pugnale che usavamo per
tagliare le tasche e farne uscire il contenuto, mentre pressavamo con
l'altra un fazzoletto contro il naso e difendendoci del nostro meglio
contro quella specie di maggiolini che si infiltravano per pizzicare ovunque.
Preskar, al mio fianco, intascava tutto quello che riteneva utile, ma
la sua ricerca era basata soprattutto da orologi da polso, anelli e catenine
d'oro. Lo vidi anche raccogliere un turbante arrotolato che sembrava nuovo,
lo alzò per un lembo e lo scosse per srotolarlo, ma dentro vi era
mezza testa appiccicata, perciò lo gettò con disgusto.
Non ricordo se i documenti ricercati siano stati trovati, penso però
che i ribelli fossero ritornati sul posto più che altro per il
nostro stesso motivo.
Terminata
la macabra perquisizione ripartimmo sui camion per altri due giorni di
pattuglie e rastrellamenti, quando infine si fece ritorno al campo. Sentivo
un gran bisogno di farmi una doccia, sbarbarmi e fare una buona dormita
finalmente in un letto, che pur essendo una brandina da campo era tanto
comoda al confronto della durezza e del freddo del terreno, anche se,
ad ogni nostro ritorno, la trovavamo per metà sepolta dalla sabbia.
Mi svestii e mi precipitai alla doccia costruita con un fusto da duecento
litri sostenuto da un muretto eretto rozzamente dagli specialisti addetti
muratori rimasti al campo. Appena finito di lavarmi la voce di Martèll
attirò la mia attenzione; egli infatti urlava a squarciagola che
la zuppa era pronta, una specialità di "Chez Maxim" diceva
lui, e tutto gratis!. Accompagnava il suo richiamo picchiando rumorosamente
con un mestolone sul coperchio della marmitta in cui bolliva qualcosa.
Mi avvicinai assieme ad altri per vedere se quel fottuto Martèll
ci aveva veramente fatto qualche sorpresa culinaria. Quando fummo in tanti
attorno al marmittone, l'improvvisato cuoco tolse il coperchio e con due
forchettoni estrasse da sotto l'acqua bollente una testa umana abbastanza
mal ridotta da fare un certo effetto, anche se oramai eravamo abituati
a tanti orrori. Vedendoci allontanare con disgusto, Martèll con
una alzata di spalle si accinse a scarnare il suo capolavoro soddisfatto
al pensiero che dal teschio ne avrebbe ricavato qualche centinaia di franchi
consegnandolo al capitano medico come soprammobile per il suo tavolo.
Pochi franchi ben guadagnati se si pensa che raccolse la testa durante
la perquisizione dei cadaveri e che senza dire niente a nessuno la tenne
nascosta nel suo zaino assieme ai viveri per diversi giorni.
IL CORSO
DI CAPORALE
OTTOBRE
"58. Mi designarono per fare un corso di caporale, poco dopo che
in una importante cerimonia ad Ain Sefrà ero stato decorato con
la medaglia d'argento. L'estate era trascorsa in continui scontri, alternati
a giorni di pattuglia e perquisizioni.
In quei mesi avevamo subito perdite ad ogni battaglia, molti amici e connazionali
erano caduti ai miei fianchi durante gli assalti e nell'insieme avevamo
avuto parecchie perdite anche se notevolmente inferiori a quelle subite
dai guerriglieri Fellagà; i quali lasciavano sul terreno in media
trenta morti per uno dei nostri. Si deve tenere presente però che
gli scontri sono sempre avvenuti tra forze impari e a nostro favore, sia
per numero, che per equipaggiamento o per addestramento. Negli ultimi
scontri però si erano viste spuntare in mano ai ribelli anche armi
pesanti come mortai e mitraglie, ma solo in casi sporadici, dato che per
la maggior parte dei casi essi erano armati con armamenti leggeri, di
fattura sorpassata, se non da vecchi fucili o addirittura da fucili da
caccia.
I sistemi di comunicazione e i mezzi di trasporto hanno permesso inoltre
ai nostri di concentrare rapidamente le forze disponibili nei punti e
nelle posizioni strategicamente più utili; senza contare che quasi
ad ogni scontro, l'aviazione o l'artiglieria entravano in azione con esiti
a dir poco devastanti per i Fellagà che diventavano spesso vera
e propria carne da macello. Anche se cercavano di evitare di misurarsi
con elementi della Legione, troppo micidiale per loro, preferivano di
gran lunga attaccare le reclute della Regolare di qualsiasi corpo, comprensibilmente
più facili prede per loro. A loro vantaggio vi era l'effetto sorpresa,
la maggior conoscenza del territorio, l'ospitalità e l'appoggio
che gli perveniva dal Marocco e dalla Tunisia, ma soprattutto quello di
colpire e sparire.
Fu in
una delle tante battaglie che venni decorato con la medaglia d'argento
all'ordine della Divisione, ma non per questo mi ero trasformato in un
eroe, e penso che certi comportamenti in certi momenti siano inspiegabili;
un'azione riuscita può sembrare coraggiosa, o puerile se fallisce,
ma spesso dettata dal pensiero di colpire per timore di essere colpito.
Ho sempre desiderato diventare col tempo, temerario e indifferente ai
rischi come era avvenuto per tanti altri miei compagni, ma mi accorgevo
che malgrado tante prove, anche dure, ci tenevo maledettamente alla pelle,
anche se mi sentivo meno agitato delle prime volte. Non avevo l'intenzione
di lasciare le ossa in quella terra maledetta per uccidere poi, gente
che in fin dei conti non reclamava che il loro diritto all'indipendenza.
Ma sapevo che per salvare la pelle avrei dovuto ancora uccidere, e per
farlo dovevo continuare a sparare per primo, o almeno fare tutto il possibile
per riuscirvi perché il farsi fuori a vicenda era diventato un
gioco di riflessi oltre che una questione di fortuna.
No, non ero diventato un temerario come dicevo, ed ero ormai convinto
che non lo sarei mai diventato; ogni volta che si dava inizio ad un combattimento
sentivo l'emozione o la paura penetrarmi da cima a fondo e procurarmi
un leggero tremolio alle ginocchia che cercavo di mascherare come potevo.
Quando cominciava l'azione ed entravo in pieno nella mischia, scompariva
tutto e trovavo una lucidità a me sconosciuta, una freddezza che
mi permetteva di valutare la situazione e di servirmi di tutti i miei
riflessi. Tale stato d'animo mi ha sicuramente salvato più volte
la vita.
Ma quando tutto finiva, ecco riapparire quel leggero tremolio.
Sebbene non fossi un temerario, ho sempre preferito quel nomadismo tra
monti e steppe con tutti i rischi e le fatiche alla dura disciplina del
campo. Quella proprio non la mandavo giù.
Inutile dire quanto odiassi ripetere l'esperienza del corso di addestramento
per divenire caporale, ma la paga era più del doppio di quella
di un semplice Legionario, e ci tenevo a mettere da parte qualche soldo
per quando sarei finalmente uscito da quell'inferno.
Ritornai dunque sotto lo sferzo della dura disciplina per sei mesi.
Dopo tanta pratica in guerriglia, mi sembrava ridicola e puerile la teoria
del corso. Oltretutto l'istruttore della mia squadra, un sergente maggiore
ungherese sui quarantacinque anni, alto e grosso, e con un enorme barba
nera, aveva un carattere durissimo e ce ne faceva vedere di tutti i colori.
Alle volte arrivava all'assurdità di farci ripetere una rivista
che non gli andava bene per tutto il giorno e la notte seguente, e per
punizione farci marciare tutta la notte attraversando fiumi e pantani
per poi proseguire la marcia forzata con gli stivali ancor pieni d'acqua,
mettendo così a dura prova ogni nostra resistenza fisica e morale.
Una sera, erano già le ventidue quando una rivista di coperte durata
tutta la giornata rischiava di prendere la solita piega nell'immutabile
finale punitivo, ma riuscimmo a beffarlo. Ogni volta che entrava nella
camerata si avvicinava ad un letto a caso e "Paff", dava una
gran botta a mano piatta sulle coperte piegate. Da queste, benché
le avessimo sbattute con cura, un po’ di polvere si alzava sempre
perciò si ricominciava da capo.
Quella sera decidemmo di imbrogliarlo bagnando leggermente le coperte,
e siccome portava i guanti non se ne sarebbe accorto, infatti ritornò
col solito ghigno sprezzante convinto di prolungare la tortura a suo piacimento
come al solito. Si diresse in fondo alla camerata e "Paff" diede
un gran colpo sulle coperte di un letto, non vedendo tracce di polvere,
ripeté incredulo l'operazione più volte anche su altri letti.
Quella volta era rimasto fregato lui.
Un'altra fregatura se la prese due giorni dopo mentre ci insegnava a compiere
un rastrellamento perfetto. Tre équipe avanzavano in linea sul
terreno piatto procedendo distaccati l'una dall'altra ad una diecina di
metri con l'arma alla mano, sotto l'occhio critico e vigile del barbone.
Controllammo alcune baracche guardando se nelle pareti non vi fossero
intercapedini e verificando che nel suolo non vi fossero sotterranei.
Ma lui, incontentabile, sprigionò la sua collera bloccando il tutto
e rimproverandoci che quella non era la maniera di fare un rastrellamento,
"Fannulloni” diceva, “non è così che si
deve fare, mentre due di voi entrano nella baracca gli altri devono proteggerli
appostandosi nelle vicinanze e sorvegliare porte e finestre. Buoni a nulla,
e in quelle ceste perché non avete guardato? Credete forse che
non si possa nascondere delle armi in un cesta? Così si fa".
E diede un gran calcione ad una cesta che in breve lasciò uscire
un nuvolo di api furiose in cerca del colpevole da punire.
Il barbone, fermo sulle gambe divaricate con pugni al fianco in tutta
la sua autorità, continuò: " Visto come si fà?
La prossima volta il calcio lo do a voi nel sedere!"
Ma le care bestiole che fortunatamente non si erano sottoposte all'autorità
militaresca della Legione, non si lasciarono impressionare dal gigante
che folgorava tutti con gli occhi cattivi e iniziarono a ronzargli attorno
alla testa, poi ad infiltrarsi tra i peli della barba. Lui sempre fermo
nella posa austera, diede qualche scossone al capo per allontanarle, senza
tuttavia perdere la faccia; ma quando cominciò a scacciarle con
le mani, le api si misero a pungerlo attaccandolo da tutti i lati in massa
costringendolo ad una fuga precipitosa accompagnata dalle nostre risa
che ormai non riuscivamo più a trattenere. Lui naturalmente si
vendicò in seguito consegnandoci tutti per una settimana.
Voleva che la sua squadra fosse sempre la prima in tutto; anche a Natale
quando il Colonnello promise una ricompensa a quella che avesse fatto
il miglior presepe, il "barba" decise di vincerlo facendoci
fare un presepe vivente.
Iniziammo i preparativi con lena, dopo aver trovato una vacca e un vecchio
somaro dagli indigeni, che con fatica spingemmo fino al secondo piano
per poi legarli in fondo alla camerata dove avevamo steso un po’
di paglia.
Trovammo dei volontari disposti a fare il san Giuseppe, la madonna, i
re magi e i pastori. Gesù, nessuno voleva farlo, solo un piccolo
spagnolo si offerse, ma era peloso come un orsetto e non andava bene.
Trovammo allora un tedesco che poteva fare al caso.
Era alto più di un metro e settanta ma coricato poteva essere passabile,
al contrario dello spagnolo era biondo e senza peli sul corpo. Ciò
era importante perché doveva coricarsi tra la vacca e il somaro
quasi nudo.
Mancavano pochi minuti alla mezzanotte della vigilia, e da lì a
poco sarebbero arrivati tutti gli alti ufficiali con le loro famiglie
accompagnati dalle autorità civili del paese, per venire ad ammirare
i presepe e a giudicare quale fosse il migliore. A quel punto però
la vacca incosciente del ruolo importante che stava adempiendo, non trattenne
un naturale bisogno che fece comodamente sotto i nostri occhi orrificati.
Qualcuno pulì in fretta ma nello stanzone abitualmente tanto pulito
permase un insistente odore che non aveva niente a che vedere con quello
delle rose. Alla benemeglio tutto ritornò alla normalità,
il somaro mangiava tranquillamente la paglia da sotto al bambinone Gesù,
che ogni tanto gli dava una gomitata per farlo scansare. La vacca soddisfatta,
faceva senza emotività il suo ruolo; e noi tutti eravamo allineati
in un angolo pronti, appena si apriva la porta, ad intonare in coro la
bellissima canzone "Stile nact".
Un gran tramestio di passi lungo il corridoio ci segnalò l'arrivo
dei visitatori, la porta si aprì e sulla soglia apparve il Colonnello
in persona. Qualcuno vinto dall'abitudine gridò con voce imperiosa
il "Fix"che fece scattare tutti sull'attenti, la madonna, San
Giuseppe, Gesù, assieme a tutti noi dritti come pali, mentre il
somaro spaventato da tale scatto, si mise a scalciare e a tirare sulla
corda che lo teneva legato. Nel frattempo i visitatori si accalcavano
sulla soglia esterrefatti. Si sentì qualche gridolino di donna
poi tutti sparirono giù per le scale tra risa incontenibili, anche
perché il Gesù nel suo zelo militare restava immobile sull'attenti
dimenticando di coprirsi.
Il nostro stesso comportamento ci lasciò sbigottiti e silenziosi
mentre ascoltavamo i visitatori allontanarsi.
Naturalmente non ci toccò il primo premio e nemmeno il secondo.
Il corso
di caporale a Sidi Bell Abbès, non trascorse soltanto nella teoria
e nella disciplina della caserma. I Fellagà indomiti, infestarono
anche quella zona che era la culla della Legione sottoponendola ad attacchi
e sabotaggi di ogni sorta, come del resto ormai avveniva in tutta l'Algeria.
In diverse occasioni i corsi di teoria si trasformavano in operazioni
reali durante le quali il barbone, dimenticando le proprie lezioni, si
trasformava in un normale capo squadra più socievole con tutti.
La prima volta che uscimmo a piedi ci fecero camminare per due giorni,
al terzo entrammo in contatto con i ribelli e per tutto il giorno vi furono
sparatorie.
A notte inoltrata ci ordinarono di attaccare un gruppo di cascine dove
si erano trincerati alcuni Fellagà. Attaccammo in linea senza correre,
camminando e sparando su un terreno spoglio. Ad una cinquantina di metri
dalle cascine gli spari si fecero più intensi e ci ordinarono di
appostarci in attesa dell'assalto finale. Era già notte e nel buio
cercai nelle vicinanze un riparo, mi gettai dietro ad un tronco appogiandovi
i gomiti per sparare meglio. Stranamente però i gomiti affondarono
nel molliccio, abbassando lo sguardo per scoprirne la ragione. Mi accorsi
che il mio riparo era costituito da un cadavere. Nella penombra vedevo
perfettamente i suoi occhi spalancati che mi fissavano quasi a volermi
rimproverare. Mi affrettai per togliere il disturbo strisciando più
in là, anche a costo di restare allo scoperto o di sembrare poco
socievole.
Occupate le cascine restammo sul posto per la notte e al mattino, rastrellando
la zona trovai accanto al corpo di un morto una saccoccia in pelle chiusa
a chiave, credendo si trattasse dei soliti documenti, la offrii ai compagni
vicini, ma nessuno volle ingombrarsi di un fardello in più, visto
che probabilmente si avrebbe dovuto camminare ancora per molto. La passai
allora indietro al tenente che riuscì a forzare la serratura. Dentro
vi erano otto milioni di franchi, che erano il frutto di una raccolta
di fondi per la lotta contro i francesi.
A fine
marzo "59 ero di ritorno ad Adjeràt dove mi concessero di
ripartire per un mese in permesso ad Arzèw, un piccolo paesino
turistico sulla costa nord vicino ad Orano. Anche se, durante tale permesso
non era consentito vestirsi in borghese, pensare ad un mese lontano dal
pericolo e in un clima piacevole a riposo mi faceva molto felice. Potevo
finalmente interessarmi a qualche ragazza e rimanere fuori fino a mezzanotte.
Il divieto di avvicinarsi ai porti, o di parlare con dei pescatori non
mi interessava siccome non intendevo disertare. Ormai non mi restavano
che pochi mesi da fare e cominciavo a sperare di riuscire a “tirare
fuori la pelle intatta”.
Al solo pensiero della prossima fine del contratto, di quei lunghi cinque
anni mi causava una indescrivibile vampata di calore. Sentirmi libero,
poter lavorare e fare progetti per l'avvenire, disponendo così
di me stesso, mi rendeva felice. Solo pochi mesi ancora, poi avrei potuto
dire addio alla divisa, alle armi e ai Fellagà.
LA GUERRA
DI PACIFICAZIONE
Terminato
il permesso feci ritorno alla mia compagnia che nel frattempo si era spostata
a Giriville.
Nella mia squadra vi erano molte facce nuove arrivate per sostituire i
congedati o i morti. Con i baffi da caporale appiccicati al braccio mi
sentivo a disagio siccome anche i miei vecchi compagni erano costretti
a darmi del voi come voleva il regolamento.
Anche Ferruccio era stato congedato e quella notizia mi rattristò
profondamente, certo ero contento per lui, ma con nessun altro ero così
affiatato e la sua mancanza mi causava un senso di solitudine, un vuoto
deprimente. Più che mai i quattro mesi che mi restavano da fare
mi sembravano lunghi un'eternità e pieni di incognite. Mi promisi
di essere prudente e cercare in tutti i modi di uscirne indenne.
Mi fu
affidato il comando della équipe col fucile mitragliatore. Il giorno
dopo il mio arrivo alla compagnia, la terza squadra in pattuglia da sola
su alcune camionette cadde in una imboscata.
Stavano rullando adagio su una vecchia pista lungo la quale, nascosti
dall'Alfa e accovacciati in un fossato laterale, vi erano nascosti centocinquanta
Fellagà.
Una granata sul 4-4 di testa lo fece incendiare provocando l'esplosione
dei fusti di benzina di riserva tenuti all'interno e uccidendo di colpo
i sette occupanti più l'autista e il tenente Maison Rouge.
Gli altri, trovatosi improvvisamente sotto il tiro ravvicinato di numerose
armi da fuoco, saltarono giù dai veicoli. Alcuni tra i più
inesperti anche senza armi, ammucchiandosi poco lontano si nascosero tra
l'Alfa.
Privi del caposquadra e della radio, in breve furono circondati senza
possibilità di scampo.
Tra i legionari, una ventina in tutto, vi era anche un certo Loracci,
un bresciano alto e magro ma tutto nervi e muscoli. Era temuto da tutti
quando faceva a botte, ma altrettanto ammirato per il suo coraggio nei
combattimenti, il quale, dopo aver sparato tutti i suoi caricatori sui
ribelli, strappò il fucile mitragliatore dalle mani di un'altro
che non osava alzare la testa per sparare e, inginocchiato, fece un fuoco
micidiale tutt’intorno sufficiente per ritardare l'assalto finale
degli attaccanti; aiutato da pochi altri che nel saltare a terra avevano
avuto l’accortezza di portarsi dietro le armi. Ma la loro disperata
difesa non sarebbe durata a lungo se non fosse passato in quel momento
un aereo che vedendo il fumo del veicolo in fiamme, trasmettè un
messaggio urgente al comando militare che ci avvertì immediatamente.
Il nostro intervento fu rapidissimo. Arrivammo sul posto giusto in tempo
per evitare l'assalto finale. I superstiti erano ormai pochissimi e con
le munizioni contate.
Loracci dopo aver sparato una trentina di caricatori, morì aggrappato
alla sua arma con una pallottola in fronte.
Al nostro arrivo i Fellagà fuggirono ma non troppo lontano. Gli
elicotteri li avvistarono il giorno seguente nei pressi del monte Allouad.
Alle undici del giorno dopo eravamo già alle loro calcagna in uno
dei soliti terreni preferiti dai ribelli usati quando si sentivano costretti
ad accettare battaglia. Come al solito cercavano di appollaiarsi sulle
cime più alte, a circa millecinquecento duemila metri. A noi come
sempre, dal basso ci aspettava il compito di assaltarli, con la differenza
che questa volta non avevamo l'appoggio dell’ aviazione, ne tantomeno
dell'artiglieria.
Forse i Fellagà non avevano avuto il tempo di raggiungere la cima
perché erano ancora disseminati lungo tutto la fiancata del monte
e appena iniziata la salita cominciarono i primi spari.
La nostra squadra, sempre comandata dal maresciallo piccoletto, era tenuta
a rispettare le nuove regole imposte dal maresciallo, che consistevano
nel mandarci all'assalto a colpi di fischietto, facendoci recuperare quindici,
venti metri per volta.
Ero nuovamente alle prese con la realtà quotidiana. Erano ormai
lontani i giorni tranquilli passati ad Arzèw!. Tuttavia mi aveva
fatto piacere l'entusiasmo col quale, gli uomini che ora comandavo avevano
accolto la notizia che sarei stato io il loro capo équipe, anche
perché il mio gruppo, era ancora l'unico a non avere mai subito
perdite, almeno da quando lo comandavo. Nell'entusiasmo c’era forse
anche un po’ di superstizione, comunque, bastava mezza parola o
un segno, e prontamente mi capivano ed eseguivano, solo Bouris ancora
tentennava.
Al posto del mitra avevo ora un fucile semi automatico con caricatori
da dieci cartucce, mentre Shroeder, sempre appollaiato accanto a me, era
il tiratore del fucile mitragliatore per il quale il grosso delle munizioni
era distribuito agl'altri sei componenti l'équipe, sparpagliati
nelle vicinanze attorno a noi.
In un momento di pausa io e Shroeder alzammo cautamente la testa da dietro
una roccia per localizzare i punti su cui tirare, ma una pioggia di proiettili
sulle nostre teste ci fece abbassare di scatto. Alla mano sinistra che
avevo appoggiato alla roccia sentii come una specie di scossa e una volta
al riparo constatai che dal dito mignolo perdevo sangue, era lacerato
e rotto, forse mi ero ferito con una scheggia.
Mi fasciai alla benemeglio e restammo in attesa di un nuovo ordine di
attaccare ma con quel tizio che ci teneva sotto mira ad una diecina di
metri non mi sentivo tranquillo, perciò dissi al mio tiratore di
prepararsi ad un mio segnale e di alzare con un bastoncino il suo képi
da dietro la roccia, mentre io preparavo una granata. Al mio segnale infatti
il tedesco fece come gli avevo chiesto, mentre io, leggermente spostato
da un lato, mi alzai di scatto e lanciai l'ordigno allo stesso instante
in cui il Fellagà sparava una raffica verso il copricapo del mio
compagno. Non si era ancora disperso il fumo nerastro dell'esplosione
che ci dissero di prepararci per un nuovo assalto continuando a sperimentare
la tattica del "piccoletto" che mandava avanti per primi gli
assaltatori leggeri protetti dai nostri mitragliatori, poi li raggiungevamo
protetti da loro; il tutto a colpi di fischietto e in un incrocio di tiri
fracassante. In una di queste avanzate vidi che da un cespuglio vicino
partivano spari e raffiche contro i nostri assaltatori, indicai l'obbiettivo
a Shroeder che immediatamente diresse il tiro nel punto indicato, ma le
sue raffiche erano troppo lunghe e non gli permettevano di mirare con
cura.
I nostri si avvicinarono al cespuglio e lo oltrepassarono, era tempo per
Shroeder di cessare il fuoco per non rischiare di colpire gli assaltatori,
ma lui eccitato, continuava a sparare tra le gambe dei nostri. Per farlo
cessare misi prontamente una mano tra il suo occhio e il mirino dell'arma,
gridandogli per l'ennesima volta di cessare il fuoco. Alle mie grida mi
guardò dispiaciuto come se si fosse risvegliato da uno stato di
ipnosi. A farmi urlare fu anche il fatto che, quando gli indicai l'obiettivo
su cui sparare, aveva girato di scatto l'arma vicino alla mia guancia
in modo che le prime raffiche le tirò con la bocca dell'arma puntate
al mio orecchio sinistro provocandomi un dolore acuto con la fuoriuscita
di qualche goccia di sangue, forse avevo un timpano lesionato.
Tra colpi di fischietto, urla e spari, alle tredici arrivammo a soli cinquecento
metri dalla cima, e lì ci autorizzarono a sostare per un'oretta,
il tempo di mangiare qualcosa.
Con la schiena protetta da una roccia, tirai fuori una scatoletta di manzo
dalla saccoccia e mi misi a mangiare rivolto verso il basso. Polak, un
anziano sergente degradato a caporale che aveva preso il posto di Ferruccio,
si era seduto qualche passo più in giù, e invece di mangiare
preferiva chiacchierare con me fumando una sigaretta. Gli mancavano solo
quindici giorni per essere congedato dopo aver fatto quindici anni di
Legione.
I Fellagà superstiti erano appostati alle mie spalle, alcuni erano
vicinissimi e sparavano. Un'arma in particolare la sentivo vicinissima,
forse a quattro o cinque metri dietro la mia roccia. Io e Shroeder, appena
finito di mangiare gettammo le scatolette vuote in quella direzione ridendo
un po’ forzatamente dato che di lì a poco avremmo dovuto
alzarci e fargli da bersaglio.
Trascorsa la pausa ci preparammo per ricominciare la solita musica, e
mentre mi preparavo dissi a Polak quanto era fortunato ad andarsene. Lui
annuì sorridente promettendo di offrire da bere prima di partire.
Così dicendo si apprestava ad alzarsi ma il suo sorriso si tramutò
in una improvvisa smorfia di dolore. Il Fellagà appostato dietro
di me lo aveva centrato alla testa, sentii un colpo secco, la pallottola
mi sfiorò per andare a conficcarsi nella sua tempia. Vidi il suo
képi volare in aria mentre Polak portandosi la mani al viso cadde
all'indietro sussultando. I fremiti del suo corpo mi fecero capire che
c’era rimasto secco, " Merde " imprecò qualcuno
vicino. Chiamai l'infermiere più per abitudine che per convinzione
prima di balzare di scatto sopra la roccia e scaricare mezzo caricatore
sul tizio che ci aveva tenuto sotto mira e ritornare precipitosamente
tra i miei.
Arrivò l'ordine di prepararci, il sergente Kurbon, un tedesco capo
del secondo gruppo, ordinò al caporale Hillerì di spostarsi
con i suoi uomini più a sinistra e Wogel uno dei suoi, non fece
in tempo ad alzarsi che si prese una pallottola nel ventre. Qualcuno chiamò
nuovamente l'infermiere che prima non era venuto perché era accorso
da qualcun altro, ma che questa volta arrivò correndo a grandi
balzi tra le asperità offertogli dal terreno.
Tirai una bomba a mano senza scoprirmi in un cespuglio vicino dal quale
partivano ripetuti spari e appena avvenne lo scoppio, ordinai alla mia
équipe di prendere posizione sulla roccia che ci aveva fatto da
riparo, aprendo il fuoco su tutti i cespugli vicini; mentre gli assaltatori
leggeri si mossero all'attacco protetti dal nostro fuoco. In seguito li
raggiungemmo protetti da loro e subito dopo ripartirono loro sotto la
nostra protezione, e così di seguito per un pezzo sempre seguendo
i colpi di quel fischietto che non ci dava tregua in quella sparatoria
infernale. Sorpassavamo cadaveri e feriti senza occuparci di loro, badando
solo a conquistare posizioni su posizioni e cercando di uccidere il più
possibile.
Sembravamo
ormai gli interpreti di una lugubre sceneggiata teatrale, la vita o la
morte non era che una questione di riflesso a chi sparava per primo o
una questione di fortuna, qua e là si accasciavano i più
sfortunati, in una sceneggiata dove scomparivano coloro che non avevano
l'avvertenza o la possibilità di premere per primi il grilletto
e si afflosciavano come fantocci.
Dov'erano quelle belle teorie che insegnano il valore della vita umana?
In quei momenti la vita non ha più valore dei bersagli che i ragazzini
cercano di colpire in un tirassegno e colpendoli si provava la stessa
gioia con la sola differenza che mancando il bersaglio poteva costare
la propria vita.
Non c’era tempo di pensare alla prudenza, non c’era tempo
neanche di avere paura.
Di volta in volta svolgevo il mio compito portando i miei uomini all'assalto
con decisione ma senza più correre perché eravamo tutti
stremati. Quando toccava a noi avanzare, conquistavamo sparando solo dei
piccoli tratti in salita, camminando lenti e offrendo al nemico dei bersagli
più facili malgrado il nostro fuoco di copertura e quello del resto
dell'équipe che ci proteggeva dai fianchi.
Anche se ogni avanzata consisteva in una ventina di metri, mi si mozzava
il fiato. Respiravo a bocca aperta e gridavo gli ordini con una voce che
non mi riconoscevo.
Una pallottola mi tolse il képi, fui grato a madre natura di avermi
fatto piccoletto.
Lo raccolsi e lo rimisi sulla testa. Shroeder avanzava al mio fianco,
anche lui boccheggiava e sparava con l'arma all'anca senza più
aspettare che gli indicassi gli obiettivi, seguito da vicino da uno dei
portatori di munizioni che lo riforniva in continuazione.
Giunti ormai vicino alla cima del monte, il sergente Boy, capo del mio
gruppo mi disse di prepararci per l'ultimo assalto prima della notte.
Si spostava da un équipe all'altra per dare ordini, in piedi senza
fretta, con una calma incredibile, forse convinto che ormai tutto fosse
finito. Gli chiesi se non fosse imprudente ad esporsi in quel modo, ma
lui rispose ridendo che chi aveva fatto l'Indocina per diversi anni, non
faceva più molto caso alle scaramucce presenti.
Mentre si allontanava lo seguivo con lo sguardo stupito, pensando che
la sua temerarietà sfiorava l'incoscienza. Ad un tratto lo vidi
afflosciarsi a terra tra l'Alfa dalla quale, solo un braccio emergeva
e faceva cenni di aiuto. Urlai più forte possibile all'infermiere
di accorrere, mentre noi attaccavamo gli ultimi tratti della salita.
Arrivati finalmente sulla cima constatai con soddisfazione che il mio
gruppo era ancora al completo, mancava solo il solito Bourìs ma
sapevo che di lì a poco sarebbe riapparso, ormai avevo cessato
di contare sul suo aiuto diretto, l’importante era che passasse
le munizioni quando ve ne era bisogno.
Nei dintorni immediati non si sparava più, solo dei colpi sporadici
ad una certa distanza. I Fellagà superstiti si erano sparpagliati
sul piatto della cima e sparavano da lontano. Sentendo che per quel giorno
il più era stato fatto, i miei nervi messi a dura prova per tutta
la giornata si rilassarono causandomi il solito leggero tremolio alle
ginocchia che mi prendeva ogni volta prima e dopo ogni scontro.
Era quasi buio quando, vicino a noi atterrò un elicottero per fare
un carico di feriti ribelli e ripartire immediatamente lasciando sul terreno
i nostri che si lamentavano e perdevano sangue. Restammo fermi ad aspettare
il suo ritorno ma solo verso le ventitré ci trasmisero di non poter
tornare a causa del buio e degli spari a cui era fatto segno. A quella
notizia i nostri ufficiali ci dissero di prepararci a trasportare i morti
e i feriti giù dal monte come meglio ci era possibile, distribuendo
ad ogni équipe la responsabilità di una parte del compito.
Amareggiati per la preferenza che avevano fatto nel soccorrere per primi
i ribelli mettendo a repentaglio la vita dei nostri, ci apprestammo a
trasportare del nostro meglio Polak e il sergente Boy, che entrambi oltrepassavano
i novanta chili, dopo aver consegnato le armi a Shroeder che in più
aveva anche il suo mitragliatore.
Mentre cinque uomini si accinsero al trasporto di Boy in una specie di
barella costruita con una giacca abbottonata nella quale infilammo due
fucili, io per essere di esempio ai miei uomini parecchio avviliti, mi
presi l'incarico di trasportare Polak con l'aiuto di Bouris, senza valutarne
attentamente le conseguenze. Infatti il primo tentativo di scendere il
monte col cadavere sulle mie spalle fallì immediatamente, non solo
per il troppo peso, quanto per il fatto che, data la lunghezza del corpo,
le braccia penzolavano davanti ai miei piedi intralciandomi il passo.
Al secondo tentativo, dopo aver legato le braccia attorno ai fianchi del
cadavere e aiutato da Bouris che gli teneva sollevate le gambe, ci avviammo
giù per il monte pian piano avanzando cautamente un piede dopo
l'altro per non cadere.
Si formò così una lunga colonna che nel buio cominciò
a ridiscendere la fiancata. Scendevo a piccoli passi con estrema fatica
e sentivo di non poter fare molta strada così conciato. Bouris
da dietro faceva del suo meglio per aiutarmi, ma nella discesa il peso
era quasi tutto sulle mie spalle, oltre alla testa del cadavere che penzolava
davanti togliendomi quel po’ di visibilità che avrei potuto
avere guardando attentamente ai miei piedi. Sarei caduto se Buoris non
avesse trattenuto saldamente le gambe di Polak.
Fatte poche centinaia di metri appoggiai il fardello su una roccia e dissi
a Shroeder, ben più robusto di me, di prendere il mio posto mentre
io mi sarei incaricato del trasporto delle armi.
A tratti la discesa era molto ripida e bastava mettere un piede in fallo
per finire a ruzzoloni. La colonna proseguiva lentamente, come in un corteo
funebre. Nessuno alzava la voce, si bisbigliava ansimando e nei casi di
estrema necessità si imprecava quando si cadeva, ma sempre sottovoce,
quasi a non voler rompere l'incantesimo di quel lugubre spettacolo. Solo
i feriti, quando venivano trascinati dai compagni nelle loro cadute e
scivolavano fuori dalle improvvisate barelle, facevano coro coi loro lamenti
alle imprecazioni.
Wogell, per il cui trasporto vi era anche Bortolani, si lamentava con
un filo di voce.
Il sergente Boy che aveva ricevuto una pallottola nel petto, continuava
a perdere sangue. Sotto il suo peso i bottoni della giacca che lo reggevano
si erano strappati, e lui cadendo a terra si lamentava pietosamente, infine
svenne. Pareva che una parte della respirazione gli uscisse dal petto.
Che buffonata pensavo. Da quando avevano visto che con la forza non avrebbero
mai sopraffatto i rivoltosi, i militari francesi non erano più
tali ma solo "forze dell'ordine" e i combattimenti non avvenivano
più per schiacciare la ribellione ma solo per fare opere di "pacificazione".
Finalmente arrivammo ai camion, la camminata era durata poche ore ma in
aggiunta alla fatica precedente arrivammo spossati, sembrava che non finisse
più.
Seduto a terra con la schiena appoggiata al nostro veicolo guardavo il
cadavere di Polak steso davanti a noi e pensavo com'era beffardo a volte
il destino. A lui che restavano solo una quindicina di giorni da fare
e poi l'avrebbe aspettato una pensione per tutta la vita. Anche il caporale
Neumann, pochi giorni prima del congedo era stato colpito, non avrebbe
neanche dovuto partire con noi quella volta, ma non vi era nessuno che
potesse prendere il suo posto al comando dell'équipe, perciò
si decise ad uscire con noi per l'ultima volta anche se non era costretto
a farlo. Una pallottola gli trapassò gli occhi, e se ne andò
cieco per sempre.
Il Maresciallo con due caporali di giornata passò tra noi per ricompletare
le munizioni e chiedere ai graduati di segnalare le perdite e i comportamenti
di ciascuno, alfine di premiare o punire a secondo dei casi. Ai morti
venivano prelevate le poche cose personali per, dicevano loro, spedirle
alle famiglie.
Passammo il resto della notte sul posto dormendo a fianco dei veicoli
e al mattino verso le otto gli elicotteri vennero a prelevarci per trasportarci
nuovamente sul Dgebèl Amoùr, un monte tra i più alti
nella zona, la cima del quale era avvolta in una nuvola di fumo dovuto
alle esplosioni.
Dire che
ad un certo momento credevo di finire i cinque anni senza sparare un colpo,
quanto erano state inutili le promesse che mi ero fatto di non rischiare
più, ormai era divenuto un continuo inferno, l’esistenza
non era più che il randagio proseguimento della lotta e del rischio.
L'artiglieria
e l'aviazione martellavano la sommità sconquassandola tutta mentre
noi salivamo nuovamente. Terminato il bombardamento toccò a noi
avanzare nel cerchio formato da altre tre compagnie che da due giorni
stavano combattendo, per rastrellare il terreno e stanare i superstiti.
Tra i numerosi cadaveri algerini ve ne erano molti anche marocchini venuti
a dare man forte ai primi, li riconosceva il capitano medico destinguendone
il diverso tipo di circoncisione. Al calare della sera si contavano più
di trecento morti ribelli e il nostro Comandante Raffanò, uno dei
rari ufficiali venuto dalla gavetta, ne fu talmente soddisfatto che ordinò
via radio agli elicotteri di portare da bere per tutti.
Ridiscesi dal monte sostammo per alcune ore nella pianura vicina per passare
a setaccio alcuni nomadi prelevati nella "zona vietata" mentre
pascolavano i loro greggi. Passare a setaccio significava fare sfilare
i nomadi sospetti davanti ad un nomade collaboratore che stava in piedi
su una camionetta scoperta con la testa avvolta in un cappuccio forato
all'altezza degl'occhi. Da quel foro li osservava uno ad uno indicando
ai nostri ufficiali quali di loro erano colpevoli.
Terminato il controllo si riprese la maratona sui camion viaggiando per
il resto del giorno e tutta la notte seguente per fermarci solo al mattino
verso le dieci ai piedi del Djebèl Aissà, che subito iniziammo
a scalare quando, fatti pochi chilometri, sorprendemmo un gruppetto di
persone intruffolarsi in una grotta. Il maresciallo postosi all'imboccatura,
intimò ai sospetti di arrendersi, quindi, non ottenendo risposta,
ordinò di tirare dentro con il bazooka. Tra i cadaveri rinvenuti
all'interno vi erano anche i corpi di due ragazze europee, ma non ci fu
possibile sapere se erano loro prigioniere o se stavano con loro per ideali
politici.
Nel frattempo i veicoli ci raggiunsero in una gola che affiancava il monte,
appena vi salimmo sopra due elicotteri in ricognizione ci segnalarono
un folto gruppo di ribelli poco più avanti. Questa volta però,
invece di iniziare un nuovo confronto, venne installato su un veicolo
un altoparlante e tramite gli Harkì, sempre con noi, si cercò
di convincere i Fellagà ad arrendersi promettendo loro un buon
trattamento.
Pian piano da dietro ai nascondigli cominciarono ad uscire diversi rivoltosi
che si avvicinarono con le mani alzate, ma tra i loro compagni decisi
a continuare la lotta partirono degli spari che ne colpirono alcuni alla
schiena. Solo una ventina tra loro giunsero fino a noi. Restammo in posizione
di accerchiamento fino a sera mentre la seconda compagnia mosse all'attacco.
Era ormai buio e ci accampammo accanto ai nostri veicoli per la notte.
Ripartimmo il mattino seguente apprestandoci a fare ritorno al campo con
una certa voglia di stenderci su un letto che da un secolo non avevamo
più.
Passando dalle parti di Ain Sefrà ci fecero scendere nelle vicinanze
del centro per proseguire a piedi verso la piazza centrale. Schierati
per dodici marciammo al passo divisi per compagnie. Nella piazza centrale
vi era la banda del Reggimento al gran completo in tenuta da parata, che
al nostro arrivo intonò l'inno della Marsigliese seguito da quello
della Legione. Un battaglione della Regolare era schierato con ordine,
anch'esso in tenuta di parata Al nostro arrivo ci presentarono le armi
mentre una gran folla di civili europei e arabi favorevoli alla causa
francese applaudivano entusiasti a dei soldati che non erano i soliti
manichini ben fardati per l'occasione, ma dei combattenti che avevano
ancora addosso l'odore del sangue e della polvere da sparo. Stanchi, sporchi,
con le barbe lunghissime, con le tute da combattimento per lo più
lacere o con piccoli bendaggi di fortuna, avanzavamo verso il centro della
piazza scandendo a passo lento il suono della musica. Sopra il pulpito
imbandierato, un civile che doveva essere un'autorità affiancato
da diverse personalità civili e militari, ci fece un discorsetto
di elogio al termine del quale chiamò alcuni tra noi per essere
decorati. Tra questi scelti, io e Shroeder. Ricevemmo una medaglia di
bronzo, era la seconda che ricevevo dopo la prima d'argento. Ne fui contento,
ma la mia vera soddisfazione fu quella di aver salvato ancora una volta
la pelle.
ULTIMI
GIORNI DI LEGIONE
Più
si avvicinava la data del mio congedo, più il tempo trascorreva
lento.
I nervi di parecchi tra noi cominciavano a fare strani scherzi. A me capitava
di sognare che i Fellagà mi sparavano addosso, ed io con la mia
arma sparavo, sparavo, ma le pallottole appena uscite dal mitra cadevano
ai miei piedi senza potenza. Allora gridavo ai compagni:"Sparate!
Sparate!", e spesso mi svegliavo a causa della mie grida reali. Facevo
così prendere paura ai miei compagni che svegliati di soprassalto
si precipitavano alle proprie armi. A qualcun'altro capitava che in piena
baruffa gettasse la propria arma e si lanciasse disarmato contro i ribelli
urlando come un pazzo verso una sicura morte.
Era troppo lo stress in cui si viveva continuamente, se almeno ci fosse
stato un buon nutrimento. Invece fuori si mangiava per lo più dello
scatolame e al campo c’era sempre la solita porcheria di lenticchie
miste a patate mal condite e come carne quella fresca solo quando ne portavamo
dai rastrellamenti. Si trattava di qualche pecora o la dura carne dei
somari o dei cammelli. Altrimenti era sempre carne in scatola, condita
e migliore di quella che si mangiava fuori dal campo, ma sempre di scatolame
si trattava. Dormire si dormiva poco e male, grazie alle frequenti strasudate,
alle seti penosissime, al freddo in certe notti sui monti, sballottati
di continuo da un combattimento all'altro, Per questi motivi si finiva
per sballare in qualche modo. Se almeno i rari giorni passati al campo
fossero stati di riposo ma non si faceva in tempo ad arrivare che ci assillavano
con le corvè, i lavori di fortificazione che non terminavano mai,
ronde, controlli, e la disciplina che riprendeva più rigida che
mai con frequenti condanne al "Tombò". Per non parlare
degli attacchi lampo notturni, abbastanza frequenti, sia al campo stesso
che ai ponti, alle linnee elettriche nelle vicinanze, ai quali attacchi
rispondevano i grossi mortai da campo.
Anche a un mio amico spagnolo saltarono i nervi quando, poco prima del
contrappello serale il caporale Hillery gli disse di pulire sotto la sua
branda. Al rifiuto di obbedire Hillery prese per il bavero lo spagnolo
e scrollandolo gli disse che se non puliva in fretta gli avrebbe fatto
rapporto, Gomèz allora ubbidì, ma subito passato il contrappello
prese una granata dalla testiera del suo letto facendola esplodere in
mezzo alla tenda.
Io che ero in quella a fianco e stavo ancora chiacchierando con alcuni
compagni, scattai sulla mia arma a mi precipitai nella tenda accanto trovandomi
di fronte ad un ben triste spettacolo. Tra le brande distrutte e sottosopra
vi era sangue ovunque, alcuni legionari giacevano a terra svenuti, altri
feriti si lamentavano. Qualcuno si precipitò a chiamare il capitano
medico e il comandante la compagnia i quali arrivarono giusto in tempo
per evitare che Gomèz venisse linciato. Vi furono quattordici feriti
, lo spagnolo fu portato via e di lui non se ne seppe più nulla.
I casi più strani non venivano isolati. Qualcuno fu sorpreso mentre
pescava tranquillo in un casco pieno d'acqua. Per fortuna a riconfortarmi
vi era il pensiero del vicino congedo, che in quell'amertume mi penetrava
come una vampata di calore nello stomaco, anche se ero ignaro sul come
avrei affrontato la nuova vita civile. Avrei potuto rimanere con pieni
diritti in territorio francese a lavorare, ma vi erano molte incognite
che dovevo risolvere.
Sarei certamente rimasto in Algeria dove vi erano molte società
petrolifere che continuamente cercavano mano d’opera per il Sahara.
Si diceva che pagassero bene, ma bisognava sopportare il gran caldo nel
Deserto, e di calore avevo sopportato tanto. Certamente mi sarei abituato,
la cosa importante era guadagnare soldi. Avrei anche potuto fare l'autista
o il guardiano in qualche cantiere e in qualche modo rifarmi un avvenire
decente, tanto più che gli europei stravedevano per i legionari.
Non mancavano
più che due giorni alla mia partenza dalla compagnia, ero veramente
felice, una gioia mai conosciuta. Al campo eravamo rimasti solo in dieci,
otto guardiacamere e due congedanti. Il resto della compagnia era partito
al mattino stesso alle quattro dopo una segnalazione di un effettivo ribelle
nei paraggi. Il Maresciallo mi aveva lasciato la scelta di partire con
loro per l'ultima volta, ma avevo deciso di restare per preparare la mia
roba con tranquillità. Shroeder aveva preso il comando del mio
gruppo e prima di andarsene erano venuti tutti a farmi gli auguri.
Mi ero rifiutato di partire con loro per vari motivi ben precisi. Per
primo il fatto che non sapevo quando sarebbero ritornati, oltre al fatto
che in cinque anni non ero mai mancato ad una adunata o ad una operazione.
Poi l’esempio di Neumann e di Polak che mi avevano insegnato a non
abusare della fortuna. In più ero fermamente convinto di essermi
già ampiamente meritato il diritto di lavorare in territorio francese.
Ero stato anche convocato a rapporto dal Comandante la compagnia, il tenente
Amelìn, che in tutti i modi aveva cercato di convincermi a rimettere
la firma per almeno altri due anni, promettendomi che mi avrebbe mandato
a fare un corso di sergente, dopo di ché avrei avuto una paga di
oltre centomila franchi mensili. Di firmare nuovamente non ci pensavo
nemmeno, avevo già perso cinque anni della mia vita, per un salario
da morti di fame e per fare una guerra infinita che in più non
mi concerneva. In particolare modo ero stanco della disciplina, dell'isolamento
nelle steppe, di mangiare scatolame fuori e porcherie dentro il campo,
di rischiare la pelle, di uccidere gente che non odiavo, che in fondo
ammiravo perché la loro causa era più giusta della nostra.
Finalmente
ero arrivato all'ultimo giorno e partii per Sidi Bel Abbès, dove
restituii gli ultimi effetti militari e mi consegnarono i documenti che
mi autorizzavano a rimanere nel territorio algerino.
Già nell'ufficio assistenziale dei legionari di Sidi Bel Abbès
chiesi se potevano aiutarmi a trovare un lavoro, ma mi risposero che si
interessavano a collocare solo i legionari che avevano compiuto un servizio
minimo di sette anni. Io con solo cinque anni non avevo diritto al loro
aiuto.
Fortunatamente non avevo fatto come molti che avevano sempre speso tutti
i soldi della loro misera paga, man mano li prendevano, temendo la morte
da un giorno all'altro. Mi ero così messo da parte una piccola
somma che ora, nell'attesa di trovarmi un lavoro mi era indispensabile.
Il tentativo del Comandante di compagnia per farmi rimanere, il rifiuto
di assistermi nella ricerca di un lavoro pretendendo per questo altri
due anni di servizio, era un gioco evidente per tentare di chiudere ogni
possibilità di reinserimento a coloro che cercavano di ricominciare
la vita civile, speculando proprio sul disorientamento di coloro che escono
privi di conoscenze e spesso anche di denaro. In molti cadevano nella
ragnatela, non trovando altre vie d'uscita. Alcuni non volevano arrendersi
e girovagavano per giorni e settimane aggrappandosi ad ogni speranza,
ma finivano per ripresentarsi affamati e malconci ai portoni delle caserme,
rassegnati e vinti per ritrovare un piatto di minestra sicuro.
Mi rimisi
in borghese per la prima volta dopo cinque lunghi anni. Gli abiti mi facevano
uno strano effetto, me li sentivo stretti e malfatti, giravo e rigiravo
davanti ad uno specchio senza decidermi ad uscire tra la gente così
conciato. Decisamente qualcosa non andava, i bottoni della giacca ad esempio
mi sembravano ridicoli. La giacca stessa mi pareva lunga e malfatta, per
non parlare dei pantaloni. Ma cosa avevano i pantaloni? Non lo sapevo.
Senza i tasconi ai fianchi me li vedevo così stretti.
I miei compagni mi assicuravano che ero vestito bene, che i miei vestiti
non avevano niente di strano. Che importava, ero felice comunque, quello
era il gran giorno che avevo tanto atteso ed ero finalmente libero di
decidere di me stesso.
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