Parte III
Questa volta il capo prima di partire prese più precauzioni del
solito. "Se dovessimo avere uno scontro” ci disse, “
e mi dovesse succedere qualcosa, ricordate che i razzi rossi sono nella
mia tasca sinistra, i verdi in quella destra, i bianchi nel tascone del
giubbotto. Se i ribelli dovessero essere in molti, scarichiamo i caricatori
su di loro e ci ritiriamo per raggrupparci nel tal posto” . Partimmo
a piedi in silenzio nella notte distanziati il più possibile l'uno
dall'altro in fila indiana. In testa Molinas seguito dal capo, io e gli
altri dietro. Dovevamo recarci in un piccolo caseggiato abbandonato dove
eravamo già stati altre sere e per arrivarci ci servivamo abitualmente
di una pista che ci portava tra rocce e cespugli. Ma quella sera il capo
non ci permise di camminare sulla pista, voleva che la costeggiassimo
di lato anche se era più scomodo.
La luna rifletteva sul paesaggio consentendoci una buona visibilità
così che innanzi a me era ben visibile la sagoma del sergente malgrado
lo seguissi ad una ventina di passi. A tratti vedevo anche Molinas apparire
e scomparire tra rocce e cespugli.
Ad un certo punto mi parve di vedere Molinas percorrere per un breve tratto
e accovacciarsi a terra, il sergente ricurvo su se stesso lo raggiunse.
Guardai rapidamente sul loro fianco sinistro ove scorreva la pista e notai
una lunga fila di ombre che anch'esse costeggiavano la pista ma dal lato
opposto. Mi chinai e così ricurvo li raggiunsi. Gli altri che ci
seguivano si avvicinarono prendendo posizione. Erano parecchie le ombre,
alcune avanzavano continuando il loro cammino mentre altre si gettavano
a terra. Tutto successe in un attimo, senza una parola le nostre armi
cominciarono a crepitare insieme in una sparatoria infernale finendo tutto
il caricatore in una sola raffica. Io tiravo piccole raffiche ben aggiustate
fino all'ultima pallottola contenuta nel caricatore e quando cessai di
sparare a mia volta un tac tac secco attorno a me mi fece capire che una
grandinata di pallottole avversarie mi cadeva attorno. Febbrilmente estrassi
il caricatore vuoto e lo sostituii con uno pieno.
Durante questa operazione sentivo solo la pioggia di proiettili abbattersi
attorno a me, ma nessuno dei miei sparare. Diedi un'occhiata attorno e
mi accorsi di essere solo, gli altri dopo aver scaricato la loro arma
con una sola lunga raffica, si erano ritirati dietro qualche roccia più
grossa a poca distanza. Tirai alcune mitragliate in direzione del fucile
che mi aveva preso di mira, mentre di scatto raggiunsi i miei compagni.
Arrivai dietro la roccia appena in tempo per vedere il capo lanciare un
razzo rosso, qualcosa di scuro gli colava da una guancia, era stata una
scheggia di un sasso che una pallottola aveva spaccato vicino al suo viso
ferendolo leggermente.
Intanto i Fellagà erano scomparsi, tutto era tornato tranquillo.
In breve tempo arrivò la compagnia in nostro soccorso che come
la volta precedente circondò la zona e insieme restammo appostati
fino al mattino.
Alle prime luci dell'alba una squadra entrò nel cerchio avanzando
in linea per frugare il terreno. Trovarono un'arabo morto accanto ad un
fucile mitragliatore e numerose tracce di sangue che si dirigevano verso
un caseggiato abbandonato poco distante. Seguimmo le tracce e in una vecchia
baracca trovammo un secondo cadavere steso a terra senza armi ma con uno
zaino pieno di medicamenti e di documenti.
Solo più tardi ci rendemmo conto di essere stati fortunati perché
i Fellagà ci stavano facendo l'imboscata che noi avevamo fatto
loro, forse dopo aver notato che quella pista ci serviva spesso di notte
per recarci al caseggiato. Fortunatamente quella sera il capo non ci aveva
fatto camminare sulla pista abituale permettendoci di sorprendere coloro
che volevano sorprenderci.
I ribelli
che operavano nella nostra zona erano generalmente civili indigeni poco
addestrati e armati precariamente, gente che di giorno svolgeva le loro
funzioni normali di lavoro nei villaggi limitrofi e insospettabili per
i loro compiti di commercianti, insegnanti, pastori, ecc, e considerati
dai francesi come loro collaboratori o neutri. In qualsiasi ora del giorno
o della notte si riunivano, dissotterravano le armi e trovavano il modo
di uscire, chissà come dal villaggio malgrado la stretta sorveglianza;
per attaccare di sorpresa una pattuglia, una casa colonica o un convoglio
militare, per riprendere in seguito le loro normali funzioni di gente
rispettabile. Non sempre però la facevano franca, un indizio o
un sospetto poteva causare la cattura di uno di loro. Da qui gli interrogatori
se non l'intervento del 2°Bireau per strappargli dei nomi, delle informazioni
che motivavano i nostri interventi specie di notte, per prelevare o ridurre
il sospettato al silenzio e restare in attesa, nella sua abitazione che
altri complici si facessero vivi. Erano questi i casi in cui dovevamo
operare nel massimo silenzio, e nello stesso silenzio ci capitava di compiere
qualche sabotaggio in case di arabi altolocati lasciando sul posto tracce
ben visibili delle tradizionali armi ribelli affinché il "colpo"
venisse attribuito a loro.
L'infiltrazione di veri militari equipaggiati, addestrati e ben organizzati
avveniva dalle frontiere della Tunisia, e soprattutto dal Marocco, nei
quali settori gli attacchi e i sabotaggi non davano tregua ai francesi,
così che ben presto fu quella la nostra destinazione.
Dicembre
"57. Partimmo per Ain Sefrà, paesetto di un migliaio di abitanti
tra arabi ed europei, eretto alle porte del Sahara vicino alla frontiera
marocchina.
Le sue poche case europee color rossiccio, come la sabbia circostante
dominavano, come sempre la grande distesa di casupole indigene tutte bianche
senza finestre poste in disordine tutt’intorno. Casette ad un piano
costruite con terra mischiata allo sterco e paglia, tutte terminanti con
terrazzuole. Le case come gli abitanti, sembravano cotte dal sole infuocato.
Arrivammo dopo un viaggio interminabile attraverso una steppa infinita
e squallida fino alla monotonia. Una terra arida ma ugualmente ricoperta
da ciuffi di Alfa, ciò a perdita d'occhio.
Di tanto in tanto era visibile un accampamento di nomadi o una carovana
di dromedari che pigramente si lasciava guidare da indigeni velati, vestiti
di bianco col turbante nero. Più raramente un’oasi dove il
trenino merci che ci trasportava si fermava e subito veniva attornato
da una moltitudine di ragazzi che correndo scalzi sollevavano nuvole di
polvere.
Gettavamo loro ciò che non mangiavamo delle nostre solite razioni
preconfezionate da viaggio: cioccolata, caramelle, biscotti e sigarette.
Il colore, quello dei loro vestiti e quello della polvere che sollevavano
era tutt'uno, dico vestiti per abitudine, dovrei dire brandelli, senza
forma ne colore. In certi casi gli abiti erano sacchi di tela rovesciati
con un buco sul fondo per infilarvi la testa e due fori ai lati per le
braccia, o qualche brandello di stracci tirato qua e là attraverso
il corpo. Altri più piccoli erano completamente nudi. Gli adulti
più diffidenti osservavano compiaciuti la scena un po’ da
lontano. Se vedevano che ne valeva la pena non esitavano a gettarsi a
loro volta nella mischia per raccogliere nella polvere lo scatolame che
a noi, a forza di mangiarne in continuazione, dava la nausea, usando la
loro superiorità fisica per appropriarsene. Mentre le vecchie "fatimà"
più distanti, incitavano l'uno o l'altro a non lasciarsi fare.
Le giovani donne restavano come al solito nascoste nei loro oscuri "gourbì"
o in catapecchie.
Arrivati a destinazione la mia compagnia venne sciolta per rinforzare
altre compagnie che nel nord algerino avevano subito notevoli perdite.
Fui destinato al gruppo di assaltatori della prima squadra, seconda compagnia
del I° Battaglione, secondo Reggimento che si trovava sotto le mura
all'esterno della caserma militare di Ain Sefrà.
Sotto le tende l'aria scottante era irrespirabile, una trentina di legionari
si trovavano sotto la tenda della mia nuova squadra intenti a pulire le
loro armi individuali, seduti ognuno sul proprio lettino da campo, quasi
tutti a torso nudo.
Al mio arrivo mi squadrarono e uno di loro mi chiese: "A che gruppo
ti hanno destinato?" “Al primo” risposi, "Vieni
qui” mi disse qualcuno in fondo alla tenda “appartieni al
mio gruppo, ecco la tua branda”. “Spero che tu sia resistente
nel marciare perché qui si fanno marce lunghissime". Era un
caporale colui che doveva essere il mio capogruppo. Mi parlava in francese
ma dalla sua pronuncia capivo che era italiano o spagnolo.
Qualche istante dopo che ebbi sistemato alla meglio le mie cose entrò
un sergente il quale dopo aver comandato il riposo alla squadra che al
suo arrivo era scattata sull'attenti, annunciò con accento tedesco:
" Pronti a partire tra due ore con due giorni di viveri nello zaino,
munizioni al completo più quelle di riserva e il necessario per
dormire sul terreno, la rivista d'armi è annullata".
Un'imprecazione in buon italiano mi fece voltare di scatto e vidi il caporale
che brontolando si mise a rimontare il suo mitra. Accortosi che lo guardavo
sorridendo mi disse in francese " neanche il tempo di respirare ci
lasciano, siamo appena rientrati che si riparte. Scriverò il tuo
nome al nostro ritorno, per ora non c'è tempo. Sei forse spagnolo?"
“No” risposi, “sono italiano”. Il suo viso abbronzato
si distese in un gran sorriso, era sempre un piacere incontrare un connazionale.
Mentre qualcuno dietro di me mormorava ad un suo vicino di branda: "Mi
sembra ben fragile per sopportare le marce che facciamo", qualcuno
gli rispose: " Se non ce la fa se la sbrigherà da solo, a
me non interessa ". Mi voltai e vidi che colui che aveva risposto
era un biondo alto e grosso sulla trentina, sicuramente un tedesco. Mingherlino
com'ero infatti, non si sarebbe detto che potessi sopportare gli stessi
sforzi dei grandoni, ma in realtà non ero inferiore agl’altri.
Partimmo alle diciotto con la compagnia al completo suddivisi in piccole
camionette scoperte chiamate 6-6, forse perché trasportavano sei
persone da un lato e sei dall'altro assieme ad un graduato e all'autista
nella cabina aperta.
Si rullò fino a mezzanotte su piste appena visibili, poi i camion
spensero i fari e si continuò a rullare nel terreno scosceso fino
ad arrivare verso le quattro ai piedi di un monte. Le camionette formarono
un cerchio e ci fecero scendere per avviarci a piedi. Zaino in spalla,
mitra a tracolla su per il monte in fila indiana senza fiatare.
Malgrado la nottata trascorsa senza dormire, mi sentivo in forma. Avevo
preso la precauzione di calzare scarponcini di tela con la gomma sotto
e camminavo bene malgrado il peso sulle spalle.
Alla cintura avevo oltre a quattro bombe a mano, il pugnale, otto caricatori
pieni per il mitra, e una borraccia d'acqua che in quei luoghi era di
prima necessità. Ero carico e le cinghie dello zaino tiravano sulle
mie spalle, ma era tutta roba necessaria. Anziché la coperta avevo
portato solo un telo, una pagnotta di pane da un chilo e due scatole di
razioni giornaliere, più in una saccoccia a parte la riserva di
trecento cinquanta cartucce per il mitra.
Alle sette sostammo per un'ora e ne approfittai per farmi un bicchiere
di caffè solubile freddo nel quale inzuppai del pane. Alle otto
si riprese la marcia fino a mezzogiorno in un terreno roccioso pieno di
cespugli, tra le gole di grandi strapiombi in colonna o in linea a secondo
se il terreno era piatto o montagnoso.
Sostammo ancora un'ora per pranzare e riprendemmo la marcia guidati dagli
Harkì, i quali seguivano le tracce di Fellagà. Il sole scottava
ormai inesorabile ed eravamo tutti stanchi e sudati. Nel gruppo vedevo
i miei nuovi compagni portare spesso la borraccia alla bocca e bere con
avidità. Anch'io avevo la gola secca e sentivo un gran desiderio
di sgolarmi mezza borraccia d'un fiato, ma mi trattenevo a gran pena sapendo
che finita l'acqua non ce l'avrei più fatta a seguire e mi accontentavo
di bagnarmi appena la bocca ingurgitando di tanto in tanto una pastiglia
di sale per evitare la disidratazione.
Verso le quattordici si cominciò a scalare un'altro monte piuttosto
alto e roccioso. Nella salita le respirazioni si facevano affannose, il
sudore grondava abbondante dai visi. Sui dorsi inzuppati un'aureola di
sale si formava sulle giacche attorno agli zaini, i pantaloni di tela
si incollavano alle pelle delle gambe.
Erano numerosi coloro che cominciavano a rimanere indietro, io e Ferruccio,
questo era il nome del caporale italiano, eravamo i soli in testa al gruppo
per seguire coloro che ci precedevano. Gli altri salivano a stento ansando
come locomotive a carbone. Quando finalmente ci fermammo per una piccola
sosta circa a metà della fiancata del monte, il resto del gruppo
ci raggiunse. Un olandese arrivò tra gli ultimi barcollando sfinito
dalla stanchezza e giunto tra noi, si lasciò cadere a terra stravolto.
Devòs, questo era il suo nome, era il grosso biondo che al mio
arrivo sotto la tenda temeva che io non potessi farcela a seguirli. Ero
stanco anch'io ma mi sentivo ancora bene, inoltre conservavo ancora buona
parte della mia acqua e questo era molto importante. Gli chiesi se voleva
darmi qualcosa da portare, mi guardò con sorpresa e gratitudine,
si tolse lo zaino che per fortuna non era pesante, e me lo porse dicendo
semplicemente: " Merci ". Lo aggiustai alla meglio sul mio e
poco dopo si riprese la salita . Devòs, con il resto del gruppo
ricominciò a perdere terreno. A tenere il passo con le altre squadre
della compagnia eravamo io, Ferruccio e il nostro sergente Raifer, un
tedesco. Continuammo a salire per non farci distaccare dalla colonna che
precedeva facendo in modo da non perdere di vista i nostri che seguivano
a stenti.
Quando finalmente arrivammo in cima al monte, stanchi e bagnati fradici
di sudore, la gola secca per la sete e la respirazione affannosa, ci sedemmo
un po’ in attesa che tutti arrivassero.
Devòs arrivò per ultimo sostenuto da due compagni. Camminava
a stenti con la testa bassa e il viso sconvolto dallo sforzo. Appena giunto
tra noi si lasciò cadere a terra avvilito, un infermiere venne
a fargli una puntura.
Seduto accanto a me Ferruccio mi disse che la causa principale di tale
mancanza di fiato durante le marce, causato dal fatto che nel nostro gruppo
vi erano dei grandi ubriaconi. Devòs poi, in caserma era sempre
sbronzo, perciò nelle marce doveva sputare l'anima per seguirci."
Se non ce la fa” disse il sergente Raifer “dovremo abbandonarlo,
non vi sono altre soluzioni".
Riprendemmo la marcia in linea sul monte dato che là il terreno
era più o meno piatto ma ricoperto di rocce e cespugli. Qui tutti
seguivano abbastanza bene. Anche Devòs, alleggerito di ogni peso
superfluo che non fosse l'arma personale, seguiva anche se con difficoltà.
Verso le diciotto ci fermammo in un piccolo spiazzo ricoperto da cespugli
di Alfa e ci attingemmo a passare la nottata sul terreno.
Quasi tutti avevano finito l'acqua, si sperava che gli elicotteri ne portassero
come avveniva spesso, ma quella sera non si fecero vedere.
Appena ricevuto l'ordine di accamparci per la notte, alcuni che avevano
stentato tutto il giorno a seguirci si lasciarono cadere a terra e cominciarono
a dormire senza mangiare, senza nemmeno togliersi lo zaino dalle spalle.
Io, il sergente e Ferruccio, ci trovammo una piccola grotta, strappammo
dell'Alfa che stesa a terra serviva da materasso per la notte. Sotto le
pietre che sollevammo per fare un rialzo all'entrata della grotta, sia
per ripararci dal venticello freddo della notte che per proteggerci da
un eventuale attacco, non era difficile trovare dei grossi scorpioni gialli
o neri che pigramente con la coda alzata minacciosa cercavano un'altro
riparo.
Così installati aprimmo alcune scatolette di carne o di sardine
con la punta del pugnale che serviva in quei casi da apriscatole, da posate,
da piccone o da arma, e cominciammo a mangiare discorrendo della giornata
trascorsa e delle probabilità di rientro per l'indomani sera.
Mangiai con appetito e mi feci un cioccolato caldo facendo bollire nel
gavettino un po’ di acqua con un pacchetto di cioccolata dentro.
Finito di mangiare, io e il sergente ci coricammo fumando una sigaretta,
mentre Ferruccio scriveva su di un pezzo di carta i turni di guardia per
la notte.
La sveglia fu per le cinque. Accesi un fuocherello per scaldarmi un po’
di caffè notando preoccupato che anch'io avevo ormai finito l'acqua.
Durante la notte non avevo dormito, ciò mi succedeva ogni qualvolta
compivo un grande sforzo. Mi ero riposato ugualmente nonostante le due
ore di sentinella e malgrado quella fosse la seconda nottata in bianco
e sebbene facesse molto freddo.
Alle sei si riprese la marcia nel solito terreno aspro e disabitato. Essendo
stata dichiarata quell’area, "zona vietata", non vi era
nessun accampamento nomade, nessuna carovana poteva inoltrarvisi, era
dunque completamente deserto. Solo rocce e ciuffi di Alfa, qualche cespuglio
e un sole che arrostiva la pelle.
Verso le nove ricominciammo a salire un monte che rappresentava quello
più alto in zona. Ben presto il sole ci fece ricordare la mancanza
di acqua, la sete riprese più tremenda del giorno prima. A me ne
restava un goccetto che conservavo come un tesoro continuando a trattenermi
dal bere il più possibile e a ingoiare di tanto in tanto una pastiglia
di sale.
Il mio gruppo marciava ora in testa alla compagnia. Devòs era di
nuovo scomparso tra gli ultimi, il resto del gruppo procedeva a stenti.
Il sergente si voltava di tanto in tanto per incitare i ritardatari a
raggiungerci, siccome diceva che quella era l'ultima salita e che lassù
avremmo trovato il piatto.
Qualcuno cominciava a maledire gli Harkì perché ci stavano
trascinando su tutte le alture che vedevano, altri si lamentavano per
la sete. Nel mio gruppo due o tre, compreso il Devòs erano svenuti
e fatti camminare a suon di punture. I loro zaini erano affidati a qualche
volonteroso, io non me la sentivo più di portarne uno.
Io, il sergente e Ferruccio col fiatone grosso, grondanti come fontane
raggiungemmo la cima distaccati dagl'altri e ci sedemmo sfiniti per lo
sforzo compiuto sul piatto roccioso della cima, mentre poco a poco arrivava
stremato il resto del gruppo seguito dalla compagnia. Man mano giungevano
gli altri guidati dai loro capigruppo, si appostavano dietro ai cespugli
e le asperità del terreno, sedendosi o stendendosi sul posto che
gli era stato assegnato. Nel frattempo il sergente Raifer guardava tutt’intorno
col binocolo e ad un tratto disse: "Guarda, guarda, dei somari e
delle pecore, ci sarà carne fresca da mangiare questa sera",
e continuando a guardare vide in basso a circa duecento metri uno stagno
d'acqua sorto chissà da dove.
I primi che ne vennero a conoscenza si precipitarono correndo in quella
direzione, altri li seguirono gettando lo zaino a terra o affidando l'arma
ad un compagno correndo verso lo stagno come verso la salvezza. In pochi
secondi la voce si sparse e come disperati l'uno dopo l'altro si precipitarono
di corsa verso lo stagno quando d'improvviso tuonarono secchi i primi
colpi di fucile che lasciarono a terra due legionari. Gli ordini vennero
presto dati per il combattimento. In breve si concentrò una fitta
gragnola di proiettili verso l'altura che dominava lo stagno dalla quale
partivano sporadici colpi di fucile, per permettere ai nostri di raggiungerci,
cosa che facevano correndo a zic-zac da una roccia all'altra.
Intanto la compagnia era giunta al completo sulla cima e in breve si dispose
in linea pronta ad avanzare. Dalla parte opposta del monte salivano altre
compagnie della Legione per prendere i Fellagà in un cerchio, mentre
il tenente Amelain comandante la mia compagnia si metteva in contatto
radio con l'aviazione che non tardò ad arrivare.
I quattro aerei T6 venuti a darci man forte cominciarono a lanciarsi in
picchiata sui ribelli mitragliando e lanciando razzi per più di
un'ora. Solo all'imbrunire cominciammo ad avanzare verso il fumo lasciato
dalle bombe, ma una grandinata di proiettili ci inchiodò sul posto
fino a notte. Prima del buio completo ci fecero disporre in linea a pochi
passi l'uno dall'altro in modo da formare con le altre compagnie un cerchio,
mentre nel buio della notte un grosso aereo B26 passava e ripassava in
permanenza su di noi lanciando ad ogni passaggio un bengala per illuminare
la zona a giorno al centro del cerchio. Una sentinella vegliava in permanenza
ogni trenta metri, tra l'una e l'altra un fuoco era acceso e continuamente
alimentato per far credere ai Fellagà che tra i due fuochi non
c’era nessuno e per segnalare all'aereo le nostre posizioni.
Il mio turno di sentinella fu dall'una alle tre, avvolto nel telo che
era di circa due metri quadri con un foro nel mezzo per infilarvi la testa,
mi misi a sedere su di un sasso situato dietro ad un cespuglio, col mitra
sulle ginocchia. Solo la mia testa emergeva dal cespuglio permettendomi
di vedere davanti a me. Avevo anch'io finito l'acqua da un pezzo e il
freddo non cancellava ne la sete ne la grande stanchezza. A sera era arrivato
un elicottero per caricare in fretta i morti e i feriti, ma senza portare
l’acqua.
Le ultime ore del pomeriggio le avevo trascorse coi nervi tesi temendo
che da un momento all'altro arrivasse l'ordine di attaccare. Era la prima
volta che sentivo tante pallottole fischiare e l'emozione mi causava un
leggero tremolio alle ginocchia che cercavo invano di reprimere. Emozione
dovuta forse anche alla debolezza per gli sforzi richiesti. Mi calmai
solo quando arrivò l'ordine di passare la nottata sul posto, mentre
notavo con stupore la disinvoltura con cui il sergente e Ferruccio accettavano
gli eventi trovando anche il coraggio di scherzarvici sopra. Avendo fatto
la campagna d'Indocina a quelle cose vi avevano fatto i calli, ma il più
sorprendente era Devòs che sin dai primi spari si era rinvigorito
a tal punto da essere solerte e gaio con tutti. Rideva e scherzava risollevando
anche il mio morale bisognoso, alle sue battute cercavo di controbattere
disinvolto ma dovevo riuscirvi ben male. Lui era giunto ormai alla fine
dei cinque anni. Aveva fatto una lunga campagna in Estremo Oriente e per
caso era uscito vivo dall'inferno di Diè-Bien-Fù. Ora per
lui quegli scontri erano più che altro una occasione di riposo
nelle lunghe marce. Tuttavia non riuscivo concepire il fatto che, sia
pure con l'abitudine, si potesse divenire tanto temerari. Sarebbe stato
così anche per me? Ne dubitavo.
Avevo freddo e mi sentivo un po’ stordito. L'aereo continuava a
compiere larghi giri gettando ad ogni passaggio su di noi un bengala,
che scendeva piano col paracadute. A volte però non si accendeva
e veniva un buio completo fino a che l'aereo non ripassava per gettarne
un'altro.
Durante un momento di buio assoluto mi parve di sentire strisciare davanti
a me. Dapprima pensavo che fosse quel venticello freddo che soffiava senza
tregua ad aver smosso qualche sterpo secco sul terreno, poi divenne certezza
che non si trattava del vento e tantomeno di un animale che, ammettendo
ve ne fossero, le esplosioni, la luce, li avrebbe inchiodati nelle loro
tane o li avrebbe fatti scappare. No, quello strisciare prudente che sentivo
a tratti davanti a me doveva essere un Fellagà che cercava di oltrepassare
l'accerchiamento. L'aereo ripassò gettando un bengala che si accese,
alzai la testa da dietro il cespuglio per esplorare la zona davanti a
me, ma nulla. Al di là del fuoco alla mia sinistra, vedevo l'altra
sentinella che passeggiava stancamente avvolta nel telo. Con tante rocce
e cespugli non era facile vedere qualcuno strisciare a terra. Mah, mi
dicevo, potrei anche essermi sbagliato, in ogni caso col mio mitra pronto
mi sentivo rassicurato. Perché l'aereo non si faceva più
vedere? Non sapeva che eravamo da un po’ al buio? E proprio nei
momenti in cui eravamo al buio risentivo strisciare. Non c'era alcun dubbio,
si trattava di un Fellagà. Il rumore dell'aereo non si sentiva
più, i fuochi erano quasi spenti. Di tanto in tanto si udivano
spari e urla di ribelli che cercavano di sfondare l'accerchiamento, poi
per un po’ di tempo ritornava il silenzio. E quel fruscio che ricominciava
ogni qualvolta ritornava il buio. Se solamente ritornasse l'aereo, pensavo.
Avevo gli occhi pieni di lacrime per lo sforzo di tenerli aperti. Malgrado
il vento freddo cercavo di frugare l'oscurità, ma le mille ombre
formate dai cespugli potevano nascondere quella di un essere umano senza
che fosse possibile distinguerlo. Una di quelle ombre ad un tratto si
allungò e si mosse mentre a pochi metri da me partirono alcune
raffiche secche e nervose. L'ombra si rimpicciolì per riprendere
l'immobilità delle altre.
L'aereo ritornò. Dal bengala che lanciò vidi ben chiaro
il cadavere di un Fellagà a pochi metri da me. Era stata la sentinella
alla mia sinistra a sparare. Perché veniva verso di me? Eppure
non poteva avermi visto, forse fu proprio quel motivo a fargli credere
che non c’era nessuno e voleva passare dov'ero io. E perché
non avevo sparato? Non avevo neanche armato il mitra, eppure aspettavo
senza paura eccessiva, aspettavo forse che mi venisse più vicino
o semplicemente la sentinella accanto fu più rapida di me?
All'alba nessuno fu in grado di farsi un caffè per la mancanza
di acqua, eppure qualcosa di caldo ci avrebbe riconfortato. Anche lo scatolame
era finito. A me restava solo una scatola di formaggio fuso che la sera
precedente avevo offerto a Ferruccio, ma che lui aveva rifiutato dicendo
che quella porcheria di formaggio non l’avrebbe mai mangiata. Oltre
al formaggio mi restava una scatoletta di patè e qualche caramella.
Non avevo altro, ne pane ne acqua, con la prospettiva di passare una giornataccia,
visto che ora si trattava di entrare nel cerchio e far fuori uno ad uno
i Fellagà trincerati dietro le rocce.
Toccò alla mia compagnia entrare nel cerchio mentre le altre rimasero
in posizione.
Le tre squadre di assaltatori in linea cominciarono ad avanzare protette
dalla quarta squadra che seguiva con il Commando gli Harkì, la
radio e l'armamento pesante, pronta col mortaio e i bazooka a colpire
i punti di maggior pericolo. Il terreno da frugare era vasto e avanzavamo
cauti con le armi puntate, spiando ogni cespuglio, ogni fenditura, ogni
roccia e attenti a sparare con rapidità su ogni ombra sospetta
e su tutto ciò che si muoveva. Avanzavo tra i primi con a fianco
Ferruccio da una parte e Torregno uno spagnolo dall'altra. Ogni passo
in avanti mi pareva un passo verso la bocca di un fucile, mi aspettavo
da un momento all'altro di sentirmi sparare addosso. In quel momento avrei
voluto avere quattr'occhi per guardare contemporaneamente in diverse posizioni,
ma non succedeva niente. Speravo vivamente che durante la notte se ne
fossero tutti andati, ma non osavo credervi. Passando accanto allo stagno
ne approfittai per riempire la borraccia d'acqua, anche se si trattava
di acqua stagnante da una pioggia che datava certamente diverse settimane.
Attraversammo l'accerchiamento senza che un solo colpo venisse sparato,
dei Fellagà non restava nemmeno l'ombra. Il tenente chiese ordini
via radio al Comando del Battaglione che si era installato sotto le tende
ai piedi del monte a molti chilometri dai nostri veicoli. Chiese rifornimenti,
viveri, acqua e munizioni che vennero rifiutati e ripartimmo in fretta
con gli Harkì in testa sulle tracce dei fuggiaschi. Riprese la
lunga marcia.
Eravamo tutti stanchi e affamati, l’acqua per fortuna l’avevamo
trovata. Avevamo riempito le borracce allo stagno di un'acqua sporca nella
quale nuotavano numerosi animaletti. Gli stracci che probabilmente servivano
da calze o da mutande trovate ai bordi dello stagno lasciavano pensare
che in quell'acqua i ribelli si fossero cambiati e lavati, eppure era
tanto buona, solo dopo averne bevuto una cisterna feci caso al suo odore
di marcio e al sapore infetto.
Alla prima sosta tirai fuori la scatoletta di patè che divorai
sotto lo sguardo invidioso del vicinato, anche Ferruccio languiva nel
vedermi mangiare. Gli offrii la scatola di formaggio che aveva rifiutato
la sera precedente e questa volta la accettò riconoscente. Lo guardai
raschiare il fondo della scatoletta per estrarne fino all'ultima briciola
e gli dissi ridendo: " Fortunatamente non ti ho ascoltato quando
mi hai detto di gettare quella porcheria" "Già”
rispose, “non mi ero mai accorto che fosse così buono, ce
ne fosse ancora!".
La marcia riprese, il gruppo seguiva abbastanza bene siccome il percorso
era in discesa. Verso sera ci arrestammo dato che gli Harkì che
avevano sempre seguito le tracce dei fuggitivi, dissero che da lì
si erano diretti verso la frontiera marocchina e non c’era più
nulla da fare.
Ricevemmo l'ordine di accamparci per la notte sul posto col divieto di
accendere dei fuochi.
Il mio gruppo che si era accampato su di una altura vicina, notò
non molto distante, un somarello che se ne stava beato al pascolo tra
i cespugli. Si tenne un breve consiglio di guerra tra i componenti del
gruppo e decidemmo di circondarlo mentre un tedesco tentava di avvicinarlo
con tutte le cautele, tendendogli una mano vuota e nascondendo l'altra
col pugnale. Lo chiamava sfornando tutto il suo vocabolario in arabo mischiandovi
qualche imprecazione in tedesco. Quando il somarello indeciso sul da farsi
diede segno di voler scappare. Finalmente lo acchiappò per un orecchio
colpendolo ripetutamente col pugnale sotto la pancia. Malgrado le ferite
il somaro cercava ancora di scappare ma gli si avventarono addosso in
due o tre per finirlo; dopo dichè tutto il vicinato accorse per
intagliare i pezzi migliori da mangiare crudi.
Non bisognava certo avere uno stomaco delicato, ma nella situazione in
cui si era non era certo il caso di fare i difficili. Anch'io intagliai
una maxi bistecca e solo quando mi rappacificai col mio stomaco pensai
allo schifo nel vedere gli altri sbranare la carne ancora calda e sanguinolenta.
Eppure, in poco tempo il povero somarello rimase senza cosce e spalle.
Preparai un materasso fatto della solita Alfa e mi accinsi a passare la
notte.
Al mattino ci raggiunsero le camionette con acqua e cibo, ciò significava
che l'operazione, salvo imprevisti, era giunta al termine.
Arrivati
al campo smontammo le tende per trasferirci ad Adjeràt, in piena
natura vicino a Figuig, un’oasi che divide la frontiera Algero-Marocchina,
dov'erano segnalati campi di addestramento Fellagà.
La sola costruzione nei pressi del nuovo accampamento era un vecchio casello
ferroviario, un piccolo edificio abbandonato di due piani dalla forma
di un fortino costeggiante una ferrovia ancora funzionante. Nel casello
prese alloggio il comando della compagnia. Tutt’intorno la solita
steppa infinita e deserta. Il trenino passava ogni mattina dirigendosi
verso Bèchar, per ripassare la sera sempre carico di materiali
militari.
Anche quella era stata dichiarata "zona vietata" e nessuna tribù,
nessun nomade la poteva attraversare, l'infrazione se scoperti, poteva
costare il carcere o la fucilazione.
Montammo le tende accanto al casello mentre altri cominciarono a circondare
l'accampamento da reticolati con recinzioni di uno spessore di otto metri
sostenute da paletti di ferro.
A cento metri dal campo vi era una sorgente di acqua potabile con un po’
di vegetazione attorno. Per diversi giorni lavorammo dal mattino presto
a sera tardi per edificare all'interno della barriera dei reticolati,
un muretto con delle feritoie in circonferenza attorno al campo.
Mentre parte di noi usciva a spaccare rocce per ricavarne i materiale
del muretto, altri si improvvisavano muratori, altri ancora, a turno uscivano
per fare lunghe pattuglie a piedi lungo i binari.
Terminate le fortificazioni più urgenti cominciammo ad uscire di
notte a tendere imboscate lungo le piste provenienti dal Marocco, lungo
i binari del treno o i pali della luce che li costeggiavano, mentre alcuni
andavano a scortare i convogli militari da Ain Sefrà a Bechàr.
Altri ancora uscivano a pattugliare sulle camionette nelle zone circostanti.
Al campo restava solo un piccolo effettivo per continuare le fortificazioni.
Di tanto in tanto i Fellagà si facevano vivi ugualmente per far
saltare la linea ferroviaria, i pali della luce o a piazzare mine sulle
piste. Ma i binari venivano presto riparati, i pali della luce subito
sostituiti e tutto ricominciava da capo.
In quella maledetta zona non si vedeva mai un civile, ne una donna nemmeno
una casa. In passato, quando si restava isolati per lungo tempo, installavano
un casino ambulante a disposizione della compagnia, lì niente.
Quel settore ci era stato assegnato per i controlli e i pattugliamenti
e non sapevamo quanto tempo ancora dovevamo restarvi. Le altre compagnie
del Battaglione erano tutte sparse lungo la frontiera con ognuna il compito
di controllare una determinata zona di diverse centinaia di chilometri
quadrati. Lungo la frontiera, ogni compagnia aveva tirato nella zona rispettiva
una estesa barriera di reticolati per uno spessore di dieci metri, con
uno spazio nel mezzo di un metro riempito da mine antipersonale e razzi
che partivano automaticamente toccando i reticolati nelle vicinanze. Inoltre,
lungo tutta la frontiera erano stati costruiti ogni dieci chilometri,
dei piccoli fortini detenuti da soldati della Regolare, i quali, muniti
di radar, avevano il compito di sorvegliare e di segnalare ogni passaggio
di Fellagà attraverso i reticolati; e avvertirci via radio quando
avveniva un'infiltrazione di ribelli, in modo che noi dovevamo precipitarci
sul luogo per dargli la caccia.
Avevamo dunque una cinquantina di chilometri di ferrovia da sorvegliare
con rispettiva linea elettrica al suo fianco. Dovevamo pattugliare all'interno
della vasta zona, scortare i convogli militari, combattere i Fellagà
entrati nella nostra zona e dare man forte nelle altre zone alle altre
compagnie del Battaglione al momento che si trovavano in pericolo con
i ribelli. A loro volta venivano da noi quando eravamo in difficoltà.
Inoltre vi erano le pattuglie notturne sempre lungo la barriera dei reticolati.
Quando tutto era calmo, un gruppo di otto uomini andava al mattino presto
a pattugliare lungo i binari prima del passaggio del treno sui 6-6 scendendo
ad ogni ponticello per controllare che non fosse stato minato, altri legionari
scortavano i convogli, altri ancora uscivano in pattuglia o facevano le
imboscate notturne quando non pattugliavano di notte sulle camionette
lungo gli interminabili percorsi costeggianti i reticolati; mentre la
squadra Comando assicurava la protezione del campo continuando le fortificazioni.
La squadra
in ricognizione lungo la frontiera partiva la sera su quattro 6-6 e una
camionetta 4-4 con a bordo il capo squadra e la radio. Arrivati sul posto
i due gruppi si dividevano, dividendo anche i cinquanta chilometri da
percorrere. Questi gruppi a loro volta si frazionavano in due équipe
ai quali corrispondevano a ognuna dodici chilometri da percorrere avanti
e indietro tutta la notte. Se veniva segnalata una banda ribelli si usciva
a cercarli e tutte le sorveglianze venivano effettuate dalla Regolare,
mentre noi si andava tutti insieme nelle zone segnalate.
Trascorrevamo
un'esistenza tumultuosa ed estenuante e come se ciò non bastasse,
le rare occasioni che avevamo di restarcene al campo erano spesso le più
sgradevoli, soprattutto agli inizi di ogni mese quando distribuivano le
paghe. Nella seconda quindicina del mese vi era una certa rassegnazione
mentre quando pagavano il mensile per alcuni giorni erano sbornie e liti
finché duravano i soldi; e proprio in quei momenti riaffioravano
i pregiudizi razziali e le liti non finivano mai.
Difficilmente queste avvenivano tra italiani e spagnoli, ma quella sera
avvenne una discussione animata tra uno spagnolo e un siciliano di nome
Pasquale. Si erano entrambi azzuffati ma la loro lotta era stata interrotta
dall'arrivo di un caporale maggiore. I due si separarono, ma mentre Pasquale
si allontanava disse allo spagnolo che quella notte lo avrebbe fatto fuori.
Nessuno fece caso alla minaccia, ma quando a mezzanotte il Pasquale terminò
il suo turno di guardia, andò sotto la tenda dello spagnolo e lo
svegliò chiamandolo per nome:" Sancès, Sancès!
"
Questi aprì gli occhi e lui continuò." Sono Pasquale
", e sparò tre raffiche di mitra sullo spagnolo che ancora
assonnato non si rese conto del pericolo. Alle raffiche nel ventre Sancès
si era sollevato a metà per poi ricadere sul dorso nel lettino
pieno di sangue. I vicini di branda svegliati e sorpresi non sapevano
troppo cosa fare, alcuni andarono a chiamare il medico, altri il comandante.
Quando questi arrivarono trovarono Pasquale seduto su una branda vicino
al cadavere che fumava tranquillamente una sigaretta, vedendolo così
calmo il capitano medico gli chiese: " Ma dì un po', ti rendi
conto di quello che hai fatto?" "Sì” rispose Pasquale,
“ho ucciso un cane".
Quattro sentinelle armate lo portarono via e non lo vidi mai più.
Coi nordici era diverso, loro si accontentavano generalmente di una scazzottata,
ma non si fidavano molto a bisticciare con italiani, con gli spagnoli
o gli iugoslavi, perché questi usavano nelle liti tutto quello
che gli capitava sotto mano. Anche noi non ci fidavamo perché se
le buscavano, soprattutto quando avevano bevuto, erano capaci di aspettare
la notte per vendicarsi. La notte infatti, si riunivano in cinque o in
sei e piano piano pigliavano la branda della vittima designata, magari
tagliando la tenda dall'esterno, e la portavano fuori. Tiravano una coperta
sulla testa dell'addormentato e mentre gli mantenevano stretta la coperta
sulla testa, gli altri con bottiglie o bastoni lo ungevano per bene per
poi scomparire. Al mattino si trovava la branda fuori col legionario sopra
ancora svenuto, pieno di contusioni e sangue.
C’era sempre una reciproca diffidenza tra razze, anche se intrallazzate
a volte da rispettose amicizie, tuttavia le risse non mancavano ; in particolare
nei primi giorni di paga, e i casi come quelli descritti mi facevano pensare
a cosa si sarebbe arrivati se non vi fosse stata una disciplina così
ferrea. Chi mai avrebbe tenuto a freno quell'armata di teste dure di ogni
razza? Come avrebbero potuto fare di quella gente l'armata migliore della
Francia? Se teste dure erano i soldati, teste ancor più dure erano
i graduati composti da sott'ufficiali stranieri e ufficiali francesi usciti
dalle accademie di Sain Cir, ambiziosi di percorrere una rapida carriera,
e la Legione glie ne offriva la possibilità.
Vigilia
di Natale "57. Eravamo rientrati verso mezzogiorno dopo cinque giorni
di pattuglie autotrasportati in quelle steppe sempre uguali. Rullavamo
di giorno e ci accampavamo di notte attorno alle camionette in cerchio,
protetti da una diecina di sentinelle.
Stanchi, desiderosi di mangiare qualcosa che non fosse il solito scatolame
e dormire finalmente su qualcosa di morbido, avevamo portato al cuoco
una ventina di pecore, un dromedario e due somari trovati nella natura.
Col convoglio militare proveniente da Ain Sefrà erano arrivati
alcuni pacchi in occasione del Natale.
Passammo il pomeriggio a pulire le nostre armi e lavando un po’
di biancheria personale. La sera ci fu un festino in occasione della vigilia:
antipasti vari, pecora allo spiedo, bistecche di somaro con contorno di
spaghetti e dolci.
Eravamo tutti riuniti sotto la tenda con ognuno la propria arma al fianco.
Prima di attaccare la cena il tenente comandante la compagnia intonò
" Le Boudin", l'inno della Legione, ma non cera tanta voglia
di cantare, tantopiù, che in tavola cominciavano ad arrivare le
cibaglie belle calde e appetitose. Dopo la cena ci servirono il caffè
al rum, una rarità che ci era consentita solo tre o quattro volte
all'anno in occasione di grandi feste, dato che di consuetudine il caffè
era la solita sbrodaglia di orzo tostato. In finale la distribuzione dei
regali, a me toccò un orologio, a Ferruccio un rasoio a molle.
La giornata di Natale verso mezzogiorno arrivò via radio l'ordine
di partire immediatamente. Solita tenuta da combattimento con due giorni
di viveri a ciascuno.
In pochi minuti ci trovammo equipaggiati a fianco del proprio veicolo,
zaino in spalla e armi alla mano. Dopo il presentat arm al caposquadra,
il sergente di giornata al suo fianco stese le braccia orizzontalmente
e si portò i due pugni alle tempia, a quel segnale saltammo tutti
sulle camionette, ognuno al suo posto. Il caposquadra in piedi dentro
alla cabina aperta del suo 4-4 a fianco dell'autista, alzò il braccio
destro e lo tese in avanti, a quel segnale il suo autista si avviò
seguito dai nostri veicoli. Fuori dal campo una colonna del resto della
compagnia, ci aspettava e alla nostra partenza ci seguì. Vi erano
due autoblinda in testa e due in coda che ci scortavano. Due ore dopo
lasciammo la pista maestra per inoltrarci su di una secondaria. Fatti
alcuni chilometri gli autoblinda di testa si fermarono, qualcuno scese
per verificare la pista innanzi a loro. Si ripartì subito e continuammo
a rullare attraverso fossati e asperità fino circa alle sedici.
A quell’ora le autoblinda di testa si fermarono di nuovo, un sergente
saltò giù dal mezzo per controllare con la punta dello stivale
un po’ di terra smossa davanti al veicolo. Un'esplosione tremenda
sollevò un nuvolo di polvere e di fumo nerastro, d'istinto saltammo
a terra coricandoci ai bordi della vecchia pista. Sentii chiamare l'ambulanza
che da dietro la colonna arrivò in tutta fretta, ma gli infermieri
non poterono fare altro che raccogliere più in là un pezzo
di busto col collo e mezza testa. E' tutto ciò che rimase di un
uomo alto più di un metro e ottanta. Altri pezzetti di carne li
raccogliemmo insieme in un largo raggio e li unimmo al moncone di busto
sanguinolente per avvolgerli in una tenda da campo che un piccolo elicottero
venne a prelevare.
Passammo la nottata sul posto e al mattino presto ripartimmo. Giunti alle
pendici di un monte iniziammo a salire a piedi. Faceva freddo, soprattutto
quando ci fermavamo. Più si salivamo più il vento si faceva
gelido. Il cielo era coperto da intensi nuvoloni scuri. Arrivati in cima
al monte dopo ore di salita, continuammo a marciare in colonna lungo le
creste della cima rocciosa.
Il vento sollevava dei pezzettini di ghiaccio che ci punzecchiavano la
pelle del viso, ghiaccio mischiato a neve. Tirai fuori dallo zaino il
solito telo mimetizzato e infilai la testa nell'apertura centrale per
proteggermi fin sotto le ginocchia, ma durante la marcia che durò
tutto il giorno sotto le intemperie sentivo il bagnato attraversare i
vestiti e spandersi sulla pelle. Nella tormenta di vento acqua e neve
nessuno parlava, camminavamo in fila come fantasmi incuranti della gocce
ghiacciate che cominciavano a scorrere lungo la schiena una dopo l'altra
con ritmo sempre più frequente. Sballottati dal vento che sbattendo
contro le rocce emetteva un sibilo stridente, camminammo fino a sera.
Finché si marciava il freddo era tollerato ma quando ci fermavamo
mi sentivo gelare. Il ghiaccio infatti si era fermato all'esterno del
telo, dalla parte in cui soffiava il vento. Avevo i piedi bagnati e i
vestiti inzuppati. Avevo i pantaloni appiccicati alle gambe e col vento
gelido mi sentivo trapassare da parte a parte. Tremavo tutto ma non ero
il solo in quelle condizioni, speravo solo che non ci ordinassero di passare
la notte in quel posto. Invece fu proprio così.
Non mi lamentavo spesso ma questa volta ebbi un gesto di stizza rivolgendomi
a Ferruccio. " Ma come possono questi disgraziati farci dormire qui
con questo freddo e tutti bagnati?". Lui non rispose, stava già
guardando in giro per trovare un posto al riparo dal vento prima che venisse
occupato da qualcun'altro, ma ovunque vi erano pozzanghere per metà
ricoperte dalla neve. Come ciliegina sulla torta, ci proibirono anche
di accendere dei fuochi.
Ci preparammo tristemente silenziosi cercando di sdraiarci nei posti meno
bagnati, solo Torregno non si era scoraggiato, diceva che lui non temeva
il freddo e che avrebbe dormito ugualmente, ma lo conoscevamo e sapevamo
che era uno sbruffone e nessuno gli dava ascolto.
Io Ferruccio e Stabill, un italo francese cominciammo a strappare dell'Alfa
ghiacciata per farne un materasso e dopo averla piazzata dietro ad una
roccia in un folto strato un po’ al riparo dal vento ci coricammo
l'uno accanto all'atro avvolti nei piccoli teli bagnati. Il cielo sembrava
schiarirsi ma continuava la pioggia mischiata al nevischio.
Il vento ci intirizziva dal freddo, restammo lì fermi a tremare,
nessuno aveva avuto voglia di mangiare. Al mio turno di sentinella, dalle
ventidue a mezzanotte, ero veramente malconcio, i vestiti erano ancora
appiccicati alla pelle ma, coricandomi si erano un po’ intiepiditi
mentre alzandomi ridivennero più gelidi che mai. Seduto dietro
ad una roccia per stare un po’ al riparo dal vento, tremavo tutto,
eppure, qualcuno avvolto in un telo ai miei piedi tremava ancor più
forte. La sua respirazione era così tremolante che faceva smuovere
tutto il telo, incuriosito mi avvicinai e dal képi mal ridotto
che usciva dal telo riconobbi Torregno. Passammo la nottata senza chiudere
occhio.
Alle sette del mattino ci consentirono finalmente di accendere dei fuochi,
e vi riuscimmo malgrado gli sterpi bagnati. Ci scaldammo un caffè
solubile corretto al rum, il quale ci permise di riscaldarci un po’
sia dentro che fuori. Verso le nove iniziammo a ridiscendere dal monte
fino a raggiungere le camionette che ci aspettavano in pianura.
Stavamo per rientrare ma un messaggio urgente ci ordinò di recarci
verso il monte Djebel Amoùr, uno dei più alti in zona che
già in diverse occasioni avevamo scalato.
Ci distribuirono nuove razioni di viveri e si ripartì per la nuova
direzione.
Ognuno accettava con apatia i continui spostamenti, anche se per noi erano
senza senso. In realtà gli ordini arrivavano dietro informazioni
precise e ci sballottavano continuamente in tutti i sensi per giorni,
per settimane senza tregua.
Viaggiammo tutto il pomeriggio e la notte seguente per arrivare verso
le dieci del mattino dopo in una zona che pareva essere quella buona,
visto che in lontananza vedevamo diversi aerei T 6 che giravano in cerchio
sulla cima del monte, mitragliando e bombardando alternativamente.
Sapevamo di essere arrivati a destinazione anche se nessuno ci aveva ancore
detto niente, e senza attendere gli ordini cominciammo a prepararci per
entrare in azione. Infatti l'ordine di scendere dai veicoli e di prepararci
non si fece attendere. Sul posto vi erano già numerosi camion e
altre compagnie della Legione che ci avevano preceduti.
Ci apprestammo a salire il monte verso la cima che era ancora lontana
malgrado le nostre camionette si fossero arrampicate il più possibile
sulla fiancata. Si sentivano lassù i rumori di parecchi fuochi
d'artificio e a quella festa ci stavamo arrivando anche noi con passo
accelerato. Assieme alle lunghe raffiche, alle esplosioni dei razzi e
delle bombe dei T6, ci giungevano chiaramente anche le detonazioni delle
armi individuali che sembravano numerose.
Arrivati sulla cima, senza perdere tempo ci disponemmo in linea apprestandoci
ad avanzare verso la zona più calda. Vi arrivammo da poco che qualche
pallottola cominciò a farsi sentire nelle vicinanze. Oltrepassammo
a passo lento la prima linea della terza compagnia che sin dal mattino
presto era in piena battaglia e durante il breve contatto con loro ci
scambiammo qualche piccola battuta. Riconobbi anche un certo Maldini che
era stato con me a Saidà, il quale mi avvertì di stare allerta
perché i Fellagà erano numerosi e ben armati." Sono
lì tutt’intorno ben nascosti tra i numerosi cespugli",
mi disse.
Col nostro progredire, gli spari che intanto non erano mai cessati aumentarono
di intensità. Ora ci riguardavano direttamente. Le nostre armi
cominciarono a sputare fuoco nei cespugli e nei nascondigli più
diversi a cinque, dieci metri davanti a noi, corrisposte però,
validamente da quelle dei ribelli che non mollavano la presa.
Tra raffiche e lanci di bombe a mano continuavamo il nostro lento progredire
in linea, lanciando i dadi in quel gioco assurdo di vita o di morte dove
mi trovavo in primissima linea. L'indice pigiato sul grilletto del mitra
che sobbalzava nelle mie mani ad ogni raffica. Gli aerei ci sostenevano
buttandosi in picchiata fino a rasentare il suolo davanti a noi scaricando
lunghe raffiche nelle asperità che dovevamo percorrere. Menè,
uno svizzero che mi era accanto, cadde colpito, il suo posto venne subito
ripreso da un'altro venuto da dietro. Da un cespuglio a dieci metri davanti
a me, uscì una serie di fiammate che smuovevano i ramoscelli per
lo spostamento d'aria, vi scaricai dentro buona parte del mio caricatore
ma, il caporale Aguer e il legionario Rigillo caddero colpiti poco lontano.
Nella nostra lenta ma tremenda avanzata si sparava ormai a bruciapelo
sui ribelli tenacemente trincerati, ad ogni passo temevo che fosse l'ultimo,
ma bastava non pensarci e concentrare l'attenzione sulla rapidità
nel colpire per primo. La tensione in questo senso era tale da farmi sentire
stranamente freddo e calmo, mi venne persino da ridere vedendo Schultz
abbassarsi di scatto quando una pallottola gli tolse il képi dalla
testa.
Ogni legionario che veniva colpito era subito rimpiazzato da un'altro
che avanzava dalla seconda linea. Ferruccio era al mio fianco e avanzava
gridando ordini e sparando. Al di là vi era Bortolani, uno di Rubiera
che grande e grosso com'era offriva un bersaglio il doppio del mio. Gli
aerei piombavano sulle nostre teste cabrando vicino al suolo in un frastuono
tremendo mentre i bossoli delle loro mitraglie cadevano su di noi. Sorpassavamo
numerosi cadaveri di Fellagà mentre altri tentavano all'ultimo
istante un ripiegamento raramente riuscito. Per la maggior parte prevaleva
la scelta di morire sul posto sparando fino alla fine.
Il Colonnello comandante il Battaglione che voleva ottenere il massimo
dei risultati prima che calasse la notte, non ammetteva perdite di tempo,
così si continuava la micidiale avanzata affiancati dai fucili
mitragliatori che, accanto a noi facevano un gran baccano.
Tra due rocce vidi qualcosa muoversi, era una testa seminascosta da un'arma
dalla quale usciva a tratti una nuvoletta di fumo, camminandogli incontro
col mitra a fianco feci partire due raffiche e la testa sparì.
Passandogli vicino la curiosità mi spinse per un attimo a guardare
cosa ne era dello sparatore che giaceva immobile con la testa fracassata.
Un'attimo di distrazione che rischiò di costarmi caro, perché
da un cespuglio vicino partirono due raffiche le cui pallottole mi sfiorarono
pericolosamente. Misi un ginocchio a terra per controbattere il tiratore
affiancato da Ferruccio che anch'esso aveva scaricato la sua arma sullo
stesso cespuglio e mentre la ricaricava, finivo il mio caricatore su altri
punti vicini da cui sparavano verso di noi. Avanzavamo a passo lento ma
continuato, ogni momento poteva essere l'ultimo, il fragore era assordante.
Qua e là qualcuno cadeva, da un cespuglio poco distante intravidi
tra fogliame un'arma e una testa ricadere, più in basso dello stesso
cespuglio partirono alcuni colpi di fucile in rapida successione. Le mie
raffiche ben aggiustate arrivarono rapide ma non in tempo per impedire
che Devòs, colpito, mi cadesse accanto.
Solo dopo una lunga avanzata, ci ordinarono di appostarci per lasciare
spazio agli aerei che continuavano la loro ronda infernale, anche se in
quei tratti non era facile colpire il nemico.
Così appostati sorvegliavamo la zona dando manforte all'aviazione
nel tirare su coloro che vedevamo spostarsi.
Ad una cinquantina di metri indicai a Ferruccio un Fellagà che
alzatosi da dietro un cespuglio correva zoppicante appoggiandosi ad un
bastone. Correva verso un'altro cespuglio più grosso per tuffarvicisi
dentro, prima che facessimo in tempo a prenderlo di mira. Quasi nello
stesso instante, un aereo scendeva in picchiata e lanciò un razzo
che fece volare via il cespuglio. Stavamo per esprimere la nostra ammirazione
per il pilota dell'aereo quando, dalle rocce rimaste nude per la scomparsa
del cespuglio, riapparve zoppicante e ancora col bastone in mano il solito
Fellagà che riprese la corsa zoppicante verso un'altro riparo.
Scoppiammo in una risata che ci fece dimenticare di sparargli addosso.
Al calare della notte avevamo finito il rastrellamento e si fece il resoconto
dei risultati.
La mia squadra aveva avuto quattro morti e sei feriti che gli elicotteri
vennero a prelevare, mentre tutta la compagnia contava ventidue morti.
Sul terreno più di duecento erano i cadaveri dei ribelli che al
momento venivano frugati dalle nostre retroguardie. Sentivamo dare questi
dati via radio dal nostro comando di compagnia trincerati a poca distanza
dietro di noi.
Ferruccio venne designato per prendere il comando dell’équipe
col fucile mitragliatore al posto del caporale Aguer rimasto colpito al
petto, mentre a me venne affidato il comando degli assaltatori rimasto
con soli quattro uomini: Brùnn, Schultz, Stabill e Preskar.
Prima di coricarmi mi feci bollire un gavettino di acqua con dentro alcuni
pezzi di cioccolato e un po’ di zucchero che mangiai inzuppandovi
del pane.
Con la funzione di caporale ero anche dispensato dal montare di sentinella,
così non vedevo l'ora di buttarmi giù per dormire fino al
mattino su uno spesso strato di Alfa. Mi fumai l'ultima sigaretta scambiando
quattro chiacchiere coi compagni mentre nella serata fredda era ritornata
una calma che pareva impossibile solo poche ore prima.
Alla sveglia
si riaccesero mille fuocherelli per scaldarci e fare il caffè.
Verso le dieci ridiscendemmo verso i camion separandoci dal resto del
Battaglione.
Riprendemmo la via del ritorno, sempre protetti dai quattro autoblinda
che ci scortavano nella stessa formazione: due in testa e due in coda.
Nel pomeriggio un'esplosione violenta ruppe la monotonia del viaggio,
l'autoblinda di testa era saltata su una mina, il pesante blindaggio aveva
protetto l'equipaggio al suo interno, vi era solo un ferito leggero, mentre
una ruota anteriore era volata in briciole. Il pesante mezzo venne preso
a rimorchio dal carro-attrezzi fino all'arrivo al campo alle ventitré.
Ricompletammo le munizioni, mangiammo qualcosa di caldo e ci coricammo.
Al mattino,
una squadra si recò ad Ain Sefrà per il funerale dei caduti,
la seconda squadra mandò un gruppo di scorta ad un convoglio militare
e uno in perlustrazione lungo le rotaie, mentre noi uscimmo in pattuglia
col nuovo caposquadra. Era un maresciallo austriaco piccoletto, con gli
occhi e il naso da civetta, la djellabà troppo lunga per lui, stretta
alla taglia dal cinturone, appeso al quale portava una grossa pistola.
Aveva rimpiazzato da poco il sergente maggiore rimasto ferito.
Già nel pomeriggio il nuovo maresciallo ci presentò le sue
credenziali. Quando avvistammo un nomade intento a pascolare con le sue
pecore, scese dal veicolo e iniziò a interrogarlo: "Di un
po’ tu, non sai che è proibito entrare in questa zona?"
"Man harf, man harf ", (non capisco) rispondeva il nomade."Tu
porti da mangiare ai ribelli, eh? Dove sono?" "Man harf, man
harf",continuava il nomade. "Vuoi fare il furbo eh?" Così
dicendo il maresciallo estrasse la grossa pistola e glie la puntò
alla testa ripetendo: "Allora vuoi dirmi dove si nascondono i ribelli
si o no ?" "Man harf, man harf", continuava il nomade.
Il maresciallo tirò allora sul grilletto ma il colpo non partì,
guardò l'arma era caduto un pezzo a terra e si mise a guardarsi
attorno per cercarlo. Ordinò all'arabo di aiutarlo nella ricerca,
trovato il pezzo mancante l'arabo lo porse al maresciallo che lo infilò
al suo posto per poi ripuntare la pistola alla testa del poveraccio. "Allora,
dimmi dove sono i Fellagà" "man harf....”. Boom!,
il colpo partì staccando mezza testa al nomade.
Il prode ometto continuando a trascinarci nella steppa ci condusse poi,
in vista di un piccolo accampamento nomade, e a distanza di un centinaio
di metri senza nessuna formalità, fermò la colonna e ordinò
al mitragliere piazzato sul 4-4 di aprire il fuoco. Vedevo benissimo le
pallottole traccianti infilarsi una dopo l'altra nelle piccole tende.
Una donna uscì correndo con un bimbo in braccio, cadde colpita
appena fuori dalla soglia.
Non avevo ancora visto una simile risolutezza a una tale brutalità.
I nomadi trovati in zone vietate, solitamente li caricavamo con noi per
poi interrogarli o portarli assieme a noi nelle lunghe marce per fargli
trasportare la radio del comando e le bombe dei mortai, anche se qualche
volta, quando ci capitava di saltare su di una mina, ne fucilavamo qualcuno
da lasciare nel buco formatosi dall'esplosione. Non era certo molto meglio
ma per lo meno avevano qualche possibilità. Vi è poi da
dire inoltre, che i pastori trovati in quelle zone erano quasi certamente
coloro che contattavano i ribelli rifornendoli di cibo con le loro pecore.
Cessato il tiro ci avvicinammo all'accampamento per incendiare le tende
e per eliminare gli eventuali superstiti che però erano assenti.
PRIMAVERA DEL "58. L'inverno trascorso si fece sentire più
che altro durante le notti passate sui monti, ma molto meno in pianura
sebbene dormissimo per terra.
Si stava smontando il campo per recarci tutti per alcuni giorni ad Ain
Sefrà per la grande festa del "Camerun", la più
grande festa della Legione. Bortolani, quello di Rubiera, imprecava tutti
i santi perché non riusciva a trovare un paio di scarpe adatte
ai suoi piedoni e si chiedeva come avrebbe fatto a sfilare con due scarpe
strette.
Ci recammo dunque ad Ain Sefrà per la festa del trenta aprile e
per un breve periodo di riposo. La festa, per quanto ne capii ricordava
una battaglia avvenuta nel Camerun tempo addietro, tra sessanta legionari
contro un migliaio di avversari. I legionari accerchiati dai nemici combatterono
senza arrendersi fino agli stremi. Sopravvissero solo in tre, due dei
quali feriti, non accettarono la resa che in cambio della garanzia di
poter conservare le proprie armi e di una degna sepoltura per i loro morti.
Il nemico, rispettando il loro coraggio, accettò i patti e quando
i tre legionari uscirono dai loro ripari gli furono presentate le armi
all'onore.
La sveglia
nella caserma di Ain Sefrà, base del secondo Reggimento, avveniva
solo in occasione di quella festa, con tutta la banda del Reggimento e
per tradizione, quel giorno, tutti gli ufficiali e sott'ufficiali erano
di corvè al servizio dei semplici legionari.
Alla sveglia dunque, i graduati col capitano in testa, ci servirono la
colazione a letto con vero caffè al rum, panini freschi con burro
marmellata e cioccolato caldo. Ci servirono uno ad uno nel buon umore
generale.
Alle otto, dopo l'alza bandiera eseguito in tenuta di parata con tutta
la fanfara al gran completo, ci fu l'adunata con le armi per una cerimonia
all'interno della caserma, durante la quale fui nominato soldato di prima
classe. Mi appiccicarono un baffetto al braccio che in sostanza significava
cinquemila franchi in più al mese.
Alle dieci iniziò la sfilata con due Battaglioni di legionari e
tutte le Armate della regione. Sfilammo con le armi cariche per il timore
di qualche brutta sorpresa. I Battaglioni della Regolare passarono prima
di noi davanti ad una gran folla mista di arabi ed europei che ai primissimi
ranghi li guardava passare in silenzio, quando invece passammo noi, la
folla ci accolse con applausi e grida di ammirazione, gettando fiori e
coriandoli dai colori della bandiera francese. Non c'è che dire,
ci sentivamo gli attori principali, in ogni sfilata la Legione era sempre
la più applaudita e la più festeggiata.
In testa ai nostri Battaglioni vi era la banda del Reggimento al gran
completo, seguita dai barboni pionieri col grembiule in cuoio bianco e
la scure sulla spalla destra. Seguivano i fanti schierati per dodici,
poi i parà della Legione e gli autoblinda. Il nostro passo lento,
i nostri visi abbronzati, erano in netto contrasto con quelli sbiaditi
della Regolare e il loro passo rapido, ma soprattutto il contrasto era
appariscente nella diversità d'azione, la rapidità e l'efficienza
della quale, ha fatto della Legione un'istituzione mitica. Quasi una leggenda
dalla quale i civili si sentivano maggiormente protetti.
In tutte le sfilate la folla ci preferiva e ci applaudiva con fervore,
Fez, Meknès, Tunisi, e Orano. Solo a Costantine ci fu tra i fiori
anche una bomba a mano.
Nel pomeriggio i civili entrarono liberamente in caserma dov'erano organizzati
svariati stupidi giochi, ma per i legionari non era che una occasione
in più per sbronzarsi.
Mi affidarono il comando di un équipe di assaltatori composta da
sette uomini, mentre Ferruccio comandava quello della seconda squadra.
Così mi trovai con dei nuovi legionari, ed erano: Won Vitke e Mùller,
tedeschi, gran bevitori e attaccalite, Bouris di Montecarlo, piccoletto
grassottello e fifone in pratica, eroe in teoria. Era sempre stato impiegato
negli uffici e mandato tra noi per punizione. Preskar, un barbone iugoslavo
grande e grosso sulla quarantina, quasi sempre ubriaco. Martèll,
francese sui trent'anni ingaggiato con nazionalità Svizzera e col
nome di un famoso cognac. Di altezza media, sdentato, rossiccio in faccia
con gli occhi allucinati. Si diceva che fosse talmente alcolizzato che
quando le zanzare lo pizzicavano rimanevano stecchite. Sempre alla disperata
ricerca di alcool da trangugiare. Al campo eseguiva qualsiasi servizio
ai compagni in cambio della loro razione di vino quotidiano, lo accumulava
e lo appendeva alla testa del suo letto in un contenitore al quale collegava
un gommino da dove succhiava anche di notte quel nettare, risvegliandosi
al mattino più ubriaco della sera precedente. In mancanza di vino
beveva indifferentemente acqua di colonia o alcool da disinfettare, insomma
tutto ciò che contenesse alcool. Kùnitz era un tedesco sulla
ventina, non tanto alto, rotondetto, molto lento in ogni suo gesto, biondiccio
di capelli e sempre pieno di foruncoli sul viso sbarbato. Non era un gran
bevitore ma passava il tempo masticando sempre qualcosa. Mangiava lentamente
come se ruminasse. Infine Stabill, un italo francese.
Ripartimmo
per Adgeràt dopo un breve periodo di riposo ad Ain Sefrà,
riposo relativo perché più volte i Fellagà ci attaccarono
di notte nella caserma con mortai e mitraglie. Ad ogni attacco gli autoblinda
si precipitavano fuori per contrattaccare appoggiati dai nostri mortai
interni, senza però trovare gli attaccanti disposti ad aspettarli.
Era appena trascorsa mezza giornata dal nostro arrivo ad Adjeràt
quando la tromba suonò l'adunata urgente. Siccome eravamo sempre
in tenuta da combattimento, in un baleno eravamo già pronti.
Ci spedirono in una zona dove una colonna di "Cacciatori Alpini"
della Regolare era da poco stata attaccata, alcuni camion bruciavano ancora
e attorno alle loro rovine vi erano parecchi cadaveri di soldati sparsi
ovunque, gli elicotteri già sul posto facevano la spola per portare
via morti e feriti, mentre noi siccome era già sera, ci accampammo
sul posto per la notte.
Al mattino presto gli Harkì iniziarono a guidarci sulle tracce
dei Fellagà, aiutati anche da tre cani pastori tedeschi.
Non erano ancora le nove quando trovammo in una grotta, degli abiti militari
e delle armi che gli assalitori avevano abbandonato. Le loro tracce si
dirigevano verso Ain Sefrà per scomparire nel paese.
Trovato il passaggio nei reticolati che circondavano il paese dal quale
gli attaccanti erano passati malgrado la stretta sorveglianza e il coprifuoco,
vennero radunati tutti gli abitanti maschi delle casupole situate vicino
e attorno al passaggio per essere interrogati uno ad uno con l'aiuto della
generatrice in una stanzetta isolata.
La generatrice che in condizioni normali non serviva ad altro che a produrre
corrente ad alta tensione, indispensabile per fare funzionare la grossa
radio da campo, veniva invece usata per sollecitare la memoria degli interrogati,
ai quali vi si collegava un filo elettrico sotto la lingua o ai testicoli. |