Parte II
Attraverso lo spioncino della cella mi sembrava di vedere uno spiraglio
di luce del nuovo giorno, mentre Tino continuava a dormire. Io non avevo
chiuso occhio ma mi sentivo riposato.
Di lì a poco avrei dovuto dare una risposta. Firmare i cinque anni
era un gran rischio ma tornare in Italia significava ricominciare da capo,
che fare?
Dei passi nel corridoio si avvicinarono, svegliai Tino mentre una chiave
girò rumorosamente nella serratura e dalla porta aperta comparvero
due gendarmi. Ci porsero ad ognuno una scodella di liquido nerastro che
per loro forse era caffè assieme ad un pezzo di pane.
Eravamo in agosto ma di notte in quelle celle faceva fresco e la sbrodaglia,
se non altro ci riscaldava lo stomaco.
Ci portarono nuovamente in un ufficio dove ci chiesero cosa avevamo deciso
e la risposta fu affermativa per entrambi, i gendarmi ne parvero lieti.
Ci presentarono alcuni documenti che firmammo senza nemmeno leggerli,
tanto al punto in cui eravamo non ci interessava più niente.
Ci rinchiusero nuovamente in cella e verso mezzogiorno ci portarono un
piatto di lenticchie con del pane, poi partimmo su di un camion per Chamberì.
Là ci fermammo due giorni e dopo aver firmato altri documenti partimmo
per Lione.
A Lione ci rinchiusero in una stanzetta con otto letti disposti due a
due, dove ci trovammo con altri tre italiani che come noi avevano firmato
i cinque anni. Italiano era anche il vecchio legionario che ci sorvegliava
e che ci guidava nei vari uffici a firmare i documenti.
Il giorno seguente si aggregarono a noi altri due belga e insieme partimmo
per Marsiglia accompagnati dai gendarmi.
Il forte
San Nicolà di Marsiglia era il principale centro di reclutamento
e smistamento della Legione Straniera.
Entrati in quel forte i pesanti portoni d'ingresso si rinchiusero come
tentacoli di una piovra sulla preda.
Di lì non si usciva più se non si era ritenuti fisicamente
inabili. Era lì che si passavano tutte la visite mediche, e in
quel luogo ero finito dopo tanto girovagare, in un ammassamento di gente
di ogni nazionalità, tra disperati di ogni età, di ogni
rango sociale ma in prevalenza quello più basso.
Gente delusa dalla vita, ubriaconi o ricercati dalla polizia, ragazzi
in cerca di avventura, falliti, fannulloni, o come me affamati in cerca
di un piatto sicuro di minestra, disposti a giocarsi la vita a testa o
croce pur di dimenticare il passato. Gente a cui è concessa come
ultima cosa la facoltà di scegliersi un nome e una nazionalità
per nascondersi dal passato.
Gente raccolta con astuzia in ogni punto della Francia e qui radunata
per farne carne da macello in tempo di guerra; lavoratori di forza in
tempo di pace, gente che per debolezza o sfortuna si sono lasciati sopraffare
dalla vita e in un ultimo sussulto di speranza accettano di giocarsi la
vita ad macabro testa o croce al profitto di una Nazione che specula sulla
loro degradazione sociale per acquisirsi su di loro il diritto di vita
o di morte.
Eravamo
a migliaia nel forte. Il terrazzone a strapiombo sul mare brulicava di
desperados in attesa delle visite mediche. I vari gruppetti si formavano
per nazionalità, gruppi di italiani, belga, spagnoli, iugoslavi,
in ognuno si parlava una lingua e raramente si confondevano tra loro.
In uno si discuteva, nell'altro si giocavano gli ultimi soldi o le ultime
sigarette. Qualcuno anche i vestiti se sapeva di essere stato fatto abile
e che gli sarebbe stata consegnata una divisa militare. Altri invece erano
alla disperata ricerca di cicche.
I nordici, tedeschi, polacchi, ungheresi, ecc... che formavano il maggior
numero erano in un'altra ala del forte.
Qualche rara integrazione avveniva tra italiani e spagnoli, con cui ci
si capiva un po’. Di notte si dormiva in una lunga galleria sotterranea
del forte, stretta e bassa assomigliante ad un rifugio di guerra e lì
dentro l'aria già rara si faceva pesante, quasi irrespirabile.
Anche lì si cercava di dormire accanto ad un connazionale, accanto
ad un amico. Non c’erano finestre, solo qualche lampadina nelle
svolte della galleria.
Tino aveva ormai altri amici che giocavano con lui, io che non giocavo
frequentavo un gruppetto di italiani chiacchieroni e allegri.
Ogni mattina c’era l'adunata generale nella piazza del forte, inquadrati
per nazionalità chiamavano con altoparlanti i nomi di coloro che
dovevano recarsi alla visita, o quelli già visitati e abili, per
fare la puntura o indossare la divisa. Si andava poi un'oretta a pelare
patate per tornare poi sulla terrazza.
Tino di tanto in tanto mi diceva scherzando di stare certo che non mi
avrebbero accettato perché troppo basso di statura e troppo magro.
Ero infatti molto ansioso di sapere. Da cinque giorni ero lì e
non mi avevano ancora chiamato, non so se l'ansia era dovuta dal timore
di essere scartato o quello di essere accettato, eppure non mi ero pentito
di avere firmato. Cosa avrei potuto rimpiangere?
Finalmente mi chiamarono per la visita medica e il giorno seguente mi
richiamarono all'alto parlante per la puntura. Ciò stava a significare
che ero idoneo, Tino invece lo scartarono e di lui non seppi più
nulla. Prima di lasciarmi mi disse sarcastico che ne era ben contento
di ritornare in Italia e che non avrebbe voluto trovarsi al mio posto.
Non lo vidi mai più, anche perché la punturaccia che facevano
in una spalla costringeva a stare due giorni a letto indolenziti in uno
stanzone separati con gli altri punturati.
Tre giorni
dopo mi consegnarono la divisa. Con quei vecchi scarponi chiodati, quei
panni strani, quel képi cilindrico in testa mi sentivo terribilmente
goffo e così conciato ritornai di sera a dormire per l'ultima notte
nella galleria e presi posto accanto ad un italiano gigantesco. Nel gruppo
belga poco lontano vi era un'altro colosso. Forse perché erano
i due giganti protettori dei rispettivi gruppi, che i due si sentivano
automaticamente rivali, fatto sta che in una svolta della stretta galleria
l'italiano che voleva uscire incontrò il belga che invece voleva
entrare. Tra le due file di letti vi era il passaggio per uno alla volta
e nessuno dei due intendeva lasciare il passo all'altro, sicché
nacque un diverbio. Ben presto alterato dai due gruppi avversi che sollecitavano
ognuno il proprio gigante. Tra i due cominciarono a volare pugni che sembravano
mazzate. Le loro teste sfioravano il soffitto e lo spazio attorno era
strettissimo, se le dettero finché il belga si piegò in
due poi cadde a terra con disappunto dei connazionali che lo incitavano
ad alzarsi e a continuare. Intanto il gruppo degli italiani urlava trionfante
e attorniava il gigante "buono" per complimentarsi. Esasperati
dalle nostre grida di vittoria, uno del gruppo belga insultò il
nostro gigante, gli rispose con le mani uno degli italiani, ne nacque
così una rissa generale tra i due gruppi. In breve tempo volarono
sedie, sgabelli, pugni e calci, finché l'arrivo di vecchi legionari
calmò tutti.
Il 30
agosto del "54 si partì per l'Africa, eravamo circa in duecento.
Sbarcati nel porto di Orano proseguimmo sui camion per Sidi-Bel-Abbès
che era il grande centro di smistamento della Legione. Da lì, dopo
due giorni mi destinarono a Saidà per il periodo di addestramento.
Saidà, un paesino sperduto nella steppa tra il nord africano francese
e il Deserto, costituito da circa duemila abitanti tra i quali tre o quattrocento
europei che dettavano legge su tutto il paese.
La caserma era costituita da tre lunghi edifici che formavano una U, edifici
di tre piani attorniati da alte mura. In ognuno vi era una compagnia di
reclute.
Il convoglio che ci trasportò a Saidà era composto da cinque
camion e una jeep, eravamo in un centinaio.
Arrivati nel piazzale della caserma verso le dieci di sera dopo il lungo
viaggio, notammo subito l'ostilità dell'ambiente. Fummo accolti
da vecchi graduati e legionari dall'espressione cattiva che urlando come
ossessi davano ordini in francese che non capivamo. Ci fecero scendere
dai camion, bagagli alla mano per condurci inquadrati alle camerate.
Mai come in quel momento ci parve di essere intrappolati da gente che
da quel momento avrebbero avuto su di noi diritto di vita o di morte,
da gente che istintivamente sentivamo già di odiare.
Ero ormai
diventato la matricola 106.988 e appartenevo alla prima compagnia di addestramento.
Capelli rasati quasi a zero, scarponi chiodati e usati, bustina in testa
verde e rossa. Infagottato da una divisa color grigio-verde, non mi riconoscevo
più, anche i miei compagni avevano cambiato aspetto, sembravano
tutti uguali.
Nelle camerate vedemmo che le reclute arrivate solo ventiquattr'ore prima
di noi avevano già disposto il loro corredo militare in un'ordine
rigoroso sopra la testata dei propri letti. Ci avvertirono della durezza
disciplinare, ci affrettammo ad imitarne il loro modello coi nostri corredi
e ci coricammo.
Alla sveglia
ci avvertirono che da ora in avanti, per le adunate sarebbe stato dato
un solo colpo di fischietto in fondo alla scalinata dei tre piani . Per
chi non lo avesse sentito sarebbero stati guai. Per le adunate del mattino
alle sette e alle quattordici, dovendosi riunire tutto il battaglione
veniva usata la tromba.
La mattina del giorno seguente la trascorsi tra le docce e i vari uffici
per l'assegnazione di un complemento del corredo. A mezzogiorno mangiammo
in un vasto refettorio con le mura tappezzate da manifesti e disegni raffiguranti
battaglie di legionari che lottavano uno contro dieci morendo eroicamente.
Il pomeriggio lo trascorremmo in manovre di adunata col fischietto. Con
la mia squadra eravamo al secondo piano e al colpo di fischietto bisognava
correre giù, e farci trovare in trenta secondi ben allineati e
immobili come statue.
Dopo cinque o sei prove, benché fossimo allineati nel tempo voluto,
il nostro caporale continuava a urlare come un pazzo, perché vi
era stato un ritardatario, perché qualcuno era caduto per le scale,
o l’allineamento non gli piaceva, o ancora qualcuno aveva mosso
la testa quando era in riga. Perciò si ricominciava, altro colpo
di fischietto per sparire di corsa nelle camerate. Lì nuovo ordine,
due minuti per mettersi in tenuta da combattimento, colpo di fischietto
per l'adunata, risali di corsa, due minuti per mettersi in tenuta da lavoro,
colpo di fischietto, e su e giù, tenuta di parata, e su ancora,
e il tutto con urla e calci ai ritardatari o alla minima infrazione.
Era già
calata la notte che per l'ennesima volta ci trovavamo giù ben allineati
per sei in ordine di statura, immobili come statue e finalmente il caporale
non trovò niente da ridire andò a chiamare il sergente maggiore
per presentargli la squadra.
Occhio di vetro, così lo battezzammo perché effettivamente
aveva un occhio di vetro. Era un polacco sulla quarantina d'aspetto scimmiesco.
Massiccio, corto di gambe, con lunghe braccia pelose, di altezza media.
Il viso tumefatto dall’acne e da cicatrici. Non lasciava prevedere
niente di buono per il futuro. Questo salutò poi, senza fretta
con le mani dietro la schiena ispezionò la squadra girandovi tutt’intorno
in un silenzio perfetto in cerca di qualche altro motivo per ricominciare
da capo. Questa volta la passammo liscia e senza una parola, salutò
andandosene. Rompendo le righe ci preparammo per il rancio.
Eravamo tutti stanchi e scoraggiati, i graduati erano ormai il nostro
terrore, i nostri nemici. Nessuno osava disubbidire, qualcuno pensava
già di scappare.
La sventura ci aveva reso più uniti, il razzismo era meno marcato,
ormai cominciavamo a conoscerci meglio a scoprire i difetti e le debolezze
degl'uni e la resistenza degl'altri, il buontempone e il rognoso a prescindere
dall'apparenza o dalla nazionalità. Tra razze diverse ci si guardava
con minore ostilità, benché anche più avanti non
sia mai avvenuta una reale integrazione e quando avveniva era in genere
sempre tra latini e tra nordici.
Dopo cena dedicammo il poco tempo rimasto prima dell'appello a squadrare
in modo perfetto gli effetti del corredo alla testa del letto, pulire,
lavare, dare la cera attorno e sotto il letto. Ciò malgrado, al
passaggio del contrappello ci scaraventarono tutta la roba in mezzo alla
camerata urlando che il tutto era un obbrobrio e ci annunciarono che all'indomani
mattina ci sarebbe stata una rivista generale di camerata e degli effetti
di corredo.
Alle nove
scoccate il caporale di giornata urlò l'attenti. Entrò occhio
di vetro con i guanti bianchi e con un passo marziale, noi, tutti sull'attenti,
allineati ai piedi dei propri letti sui quali era ben disposto il corredo
nell'ordine prescritto. Le coperte ben ripiegate, la roba personale, le
camice, le maglie, la gamelle, la tenuta da libera uscita, da combattimento,
da sport, ecc...,
Nel silenzio più assoluto "occhio di vetro" si diresse
verso un letto e, senza degnare di uno sguardo i legionari rimasti sull'attenti
ne sollevò il materasso per passare con l'indice lungo la sbarra
laterale del letto per portarselo poi davanti all'occhio inorridito. Poi,
sempre in silenzio, si avvicinò al legionario col dito alzato e
con disprezzo gli lo strofinò sul viso.
Piazzandosi in seguito nel mezzo della camerata ci disse: "Siete
venuti qui per soffrire e vi garantisco che con me soffrirete, ripasserò
tra mezz'ora".
Durante la mezz'ora ricominciammo tutti a pulire, a fregare, a ordinare
a lucidare le sbarre dei letti e quando tornò si diresse verso
un'altro letto. Si chinò passando la mano inguantata sul pavimento
sotto il letto, ma un guanto bianco strofinato sulla cera difficilmente
si ritrae perfettamente pulito.
Questa
volta pareva che l'unico occhio gli saltasse fuori dall'orbita, urlò
che non aveva mai visto degli sozzumi simili, oltre al fatto che ci avrebbe
pensato lui a metterci a posto.
Due minuti dopo fece fare l'adunata in cortile e in colonna per sei, lui
col fischietto cominciò a farci correre, buttarci a terra, strisciare,
alzarci, correre, a terra, sempre a colpi di fischietto, così per
più di un'ora. Alcuni non ce la facevano più, ma inquadrati
da due caporali e da "occhio", si doveva continuare, chi non
ce la faceva veniva fatto proseguire a suon di urla e calci.
Nel piazzale della caserma tuttavia non eravamo i soli, altre squadre
subivano lo stesso trattamento.
Un giovane tedesco attardato e più stanco degl'altri osò
fare un'osservazione al caporale che si accaniva su di lui. Non l'avesse
mai fatto, il caporale gli si avventò contro dandogli dei pugni
sul viso. Il tedesco, un certo Franz, per ripararsi dai colpi aveva alzato
le braccia davanti al viso cercando contemporaneamente di allontanare
il caporale infuriato, al ché, accorsero in rinforzo l'altro caporale
e "occhio". I tre gli saltarono addosso riempendolo di pugni
e calci fino a stordirlo, poi lo portarono in fureria.
Quando infine ci fecero salire nella camerata notammo dalla porta aperta
della fureria il Franz, la faccia contro il muro con un foglio di carta
tra il suo naso e il muro stesso, tremolante e insanguinato anche perché
ogni qualvolta il foglio di carta cadeva a terra il caporale maggiore
della fureria gli sbatteva violentemente la faccia contro il muro.
Quando infine passò la rivista di camerata per l'ultima volta in
una quindicina ricevettero dagli otto ai quindici giorni di consegna,
durante la quale dovevano svolgere in più ai già pesanti
servizi altri lavori tra i più sgradevoli.
Il terzo giorno ci assegnarono il fucile e ci incamminammo fuori verso
un boschetto distante due chilometri dalla caserma al fine di farci conoscere
l'arma.
Partimmo alle otto precise in colonna per sei, i grandi in testa e i piccoli
dietro in tenuta da combattimento.
Appena fuori dalla caserma i tedeschi che erano in maggior numero, circa
il quaranta per cento, ebbero l'ordine di intonare nella loro lingua,
un canto di guerra al ritmo del passo lungo e lento della Legione. Noi
dovevamo cantare con loro ma, sia perché non conoscevamo la canzone,
sia perché non sapevamo ancora marciare al passo, ogni tentativo
dava risultati strazianti e "occhio" ne approfittava per allenarsi
col fischietto, facendoci fare tutto il percorso correndo, buttarci a
terra, facendoci strisciare coi gomiti e le ginocchia, e riprendere a
correre sempre per sei e guai ai ritardatari.
Ogni giorno
si andava nel boschetto ad esercitarci, mattina e pomeriggio. La lingua
francese obbligatoria per tutti, cominciava a permetterci di comunicare
tra noi, almeno per l'essenziale. Il tempo trascorreva lento, ogni giorno
era un incubo e man mano passavano i giorni l'addestramento diveniva più
difficile. Cominciarono i tiri col fucile le prime marce forzate di oltre
trenta chilometri, con zaino elmetto fucile e munizioni, ma soprattutto
con stivali chiodati, che, usati in precedenza da altri, i piedi ne soffrivano
fino a sanguinare.
Ad ogni fine marcia vi era ad attenderci in una cascina custodita da arabi
fedeli il "Miscuì", ossia i montoni allo spiedo che ancora
cuocevano sui grandi fuochi all'aperto.
Per tali marce si partiva alle tre del mattino in fila per sei cantando
canzoni di guerra tedesche qualche volta tradotte in francese. Per dividerci
in colonna ai due lati della strada non appena usciti dal paese e proseguire
in silenzio.
Durante le marce imparai presto ad economizzare l'acqua della borraccia,
perché fuori, non era possibile reperirne e farla durare fino a
sera.
Avveniva spesso che qualcuno svenisse da tanta stanchezza, ma era prontamente
rimesso in piedi con punture a base di alcool, e bene o male doveva farcela.
Solo verso il calare della notte si arrivava in vista della cascina araba,
sudati, sporchi sfiniti, ma avevamo la bella sorpresa di trovare presso
una cascina i soliti Miscuì attorno ai quali, una diecina di arabi,
radunati davanti agli enormi bracieri erano intenti a far girare lentamente
gli spiedi che ungevano di tanto in tanto col grasso fuso che colava.
Noi, affamati, circondavamo i montoni sul braciere, uno per ogni squadra
guardandoli dorare con l'acquolina in bocca.
Sebbene
le marce fossero estenuanti io le preferivo alla vita di caserma dove
la disciplina ferrea non si arrestava nemmeno di fronte al grottesco e
le punizioni venivano effettuate a discrezione della fantasia degli istruttori.
Un loro debole era quello ad esempio, di far pulire ai puniti un gran
pezzo di cortile con uno spazzolino da denti, o far stare le mani a terra,
i piedi contro un'albero per una durata più o meno lunga, magari
dopo aver messo sotto la testa del punito un escremento. Oppure ancora
far tenere per lunghi momenti il fucile nelle due mani con le braccia
ben tese in avanti e farlo saltellare ripiegato sulle ginocchia fino ad
esaurimento delle forze, e questo capitava per un nonnulla.
Solo dopo
due mesi di addestramento ci venne dato il permesso di uscire in paese
la sera dalle diciannove alle ventuno. Era molto difficile riuscire a
superare la porta del posto di guardia, Il capoposto ci aspettava lì
in compagnia di un sott'ufficiale per squadrarci da capo a piedi. Ci si
doveva fermare esattamente a sei passi di distanza, fare un saluto impeccabile
con la mano destra, togliersi il képi con la sinistra e presentarsi:
" Legionario tale, matricola tale, tale compagnia e squadra”.
Se tutto il blàblà risultava perfetto, con un cenno il capoposto
faceva avvicinare. Squadrava bene prima il legionario sull'attenti da
vicino, verificava se le scarpe erano ben lucide, se la divisa era ben
pulita e stirata con tutte le pieghe nel modo predetto, se la rasatura
era fresca, se il taglio dei capelli era recente e la fodera del képi
ben bianca. Ordinava allora il dietro front che doveva essere eseguito
in modo impeccabile per vedere se la pieghe della divisa erano ben fatte.
Poi nuovamente il dietro front per controllare se dentro la képi
vi era l'ago, il filo e i due bottoni prescritti dal regolamento. Se il
fazzoletto era candido e ben piegato e se tutto era a posto si era autorizzati
a uscire per recarci solo nelle zone detenute dagli europei dove c’era
il casino, due o tre bar e alcune piccole trattorie.
I quartieri arabi erano vietati sia per il pericolo di venire sgozzati
che per evitare contatti e accordi per un'eventuale evasione.
Due ore settimanali venivano dedicate al lavaggio degli indumenti personali.
Andavamo inquadrati a lavare in un fiume poco distante. In quanto allo
stirare, ognuno si arrangiava, i graduati volevano solo vedere i panni
stirati con le pieghe impeccabili. Se qualcuno non sapeva cavarsela col
ferro da stiro gli dicevano: "Demerde tuà", cioè
arrangiati.
Io come altri del resto, mettevo i panni ancora umidi sotto il materasso
ben stesi per una notte, li ritiravo ancora umidi per fare le pieghe passando
la stoffa più volte tra i denti di un pettine.
Le riviste erano sempre più frequenti e ripetute spesso fino a
tarda notte e se non erano ancora soddisfacenti si ripetevano le punizioni
di massa con marce forzate notturne durante le quali non mancavano i fiumi
da attraversare con l'acqua fino al ventre, o farci fare più volte
il percorso dei combattenti, o farci correre e strisciare a terra preferibilmente
nel fango.
Inutile dire che il morale era a terra per tutti, ma non ci restava che
ubbidire. Odiavamo i graduati senza osare dimostrarlo, ci sentivamo impotenti,
anche perché al minimo segno di contrarietà non esitavano
ad usare metodi di repressione senza limiti, visto che ormai erano i padroni
assoluti delle nostre vite. D’altra parte a chi mai ci si poteva
rivolgere per ottenere qualche aiuto ?. Anche in caso di morte si veniva
interrati lì nell'incognito e non se ne parlava più.
Il passato
civile ormai non era più che un sogno lontano, in quel luogo si
apparteneva ad un'altro mondo, il mondo dei bastardi.
La vita era dura per tutti, ma in special modo per coloro che non si piegavano
totalmente al loro volere, o per coloro che erano abituati ad una vita
più comoda, o ancora per coloro che venivano presi dalla nostalgia
di aver lasciato qualche persona cara.
Anch'io sopportavo male tali trattamenti, ma nei confronti di tanti ero
già vaccinato ad una vita dura e non avevo famigliari da rimpiangere.
In molti avevano tentato di disertare, ma nessuno vi era riuscito. Eravamo
isolati da qualsiasi centro abitato da diverse centinaia di chilometri,
essendo Saidà circondato da immense steppe senza acqua. Le coste
e i porti di mare erano tutti sotto sorveglianza e qualsiasi arabo che
catturava un disertore o contribuiva alla sua cattura, riceveva un premio
di diecimila franchi. Nella miseria in cui vivevano queste persone per
guadagnarsi quei soldi erano disposti anche a uccidere.
I primi a tentare l'avventura nella nostra compagnia furono tre tedeschi,
ma vennero riportati alla caserma quattro giorni dopo. In tale occasione
cera l'adunata di tutta la compagnia disposta in riga a forma di una U
innanzi alla fureria. I tre disertori trascinati al centro vennero fatti
inginocchiare su sbarrette triangolari in modo che il peso del corpo riposasse
sul taglio del triangolo.
Erano irriconoscibili, sfiniti laceri e sanguinanti. Erano lì inginocchiati
con la schiena ricurva e la testa abbassata, pallidissimi con gli sguardi
smarriti senza poter chiedere aiuto a nessuno. Anche i loro amici li guardavano
con pena e disprezzo per essersi fatti catturare, perché davano
ancora l'occasione ai graduati di disporre come volevano delle nostre
vite.
Due caporali gli si avvicinarono e cominciarono a stagliuzzargli i capelli
a zero strappandoglieli in parte e sghignazzando mentre un sottotenente
faceva un discorsetto per convincerci a non ritentare l'esperienza. Vennero
poi trascinati in fureria dove "occhio" con alcuni compari si
dilettò a passarli a tabacco prima di consegnarli alla "compagnia
disciplinaria"dove i trattamenti erano ben peggiori. Celle buie e
tanto piccole da costringere il detenuto a stare solo in piedi, a correre
e strisciare a terra fino allo svenimento a torso nudo con lo zaino in
spalla contenente una trentina di chili di sassi e con filo di ferro al
posto delle spalliere in modo che col peso entravano nella pelle nuda.
Erano parecchi a finire lì dentro e quando uscivano, se uscivano,
non erano più uomini ne matricole, ma animali sottomessi e intorpiditi
dai maltrattamenti.
Ogni mattina prima dell'inizio dei supplizi, venivano passati in rivista
da un maresciallo tedesco con molte medaglie al petto e con le due gambe
di legno che camminava a stento con le stampelle. Alto, grosso, rosso
in faccia, col naso violaceo e spesso ubriaco. La sua voce era tonante,
sempre coleroso con tutti, soprattutto con le reclute, peggio ancora con
i puniti e quando li passava in rivista lo si sentiva urlare a centinaia
di metri di distanza. Con le stampelle sfogava spesso la sua ira sui detenuti
che dovevano rimanere sull'attenti. Lo conoscevamo bene tutti perché
da lui erano ispezionati i cambi di guardia che ogni giorno, alle diciassette
precise avvenivano al centro della caserma e a quell'ora le sue grida
tuonavano in tutto l’ edificio punendo per la minima infrazione.
Punì anche me, perché negli scarponi mancavano due borchiette.
Mi presi due giorni di consegna: uno per ogni borchietta.
Le prime
esperienze avute nella Legione Straniera sono dunque state poco lusinghiere.
La paga mensile era di millecinquecento franchi, appena sufficienti da
permetterci una scopata al casino. A quella paga si aggiungeva una piccola
parte del premio d'ingaggio che ci davano un po’ per volta per il
timore che tale somma versata in una sola volta favorisse la diserzione.
Una cena fuori dalla caserma costava mille franchi, non cera molto dunque
da sperperare.
Nel casino vi erano tre o quattro donne continuamente "in servizio",
europee o arabe ma comunque fisicamente diroccate.
Per fortuna i tedeschi preferivano in genere spendere i loro soldi in
birra, altrimenti ci sarebbe stato da fare la coda per ore. Ci andavamo
a volte anche solo per sorseggiare una birra stando seduti nella grande
sala d'attesa. Quell'atmosfera di falsa allegria ci permetteva di scordare
per qualche instante la caserma e ci dava l'impressione di riallacciare
qualche legame con la vita civile e di essere ancora uomini.
Durante
i sei mesi di CAR tentarono di disertare in parecchi e in vari modi, ma
nessuno, almeno della mia compagnia vi riuscì. Tentarono travestiti
da "fatimà", ossia da donna rubando cavalli, in treno,
camminando solo di notte. Tutti ricomparirono accompagnati dai gendarmi.
Non si scappava da Saidà, il luogo era stato scelto con cura dai
francesi. Se anche qualcuno fosse riuscito ad attraversare la steppa,
ne sarebbe uscito talmente malconcio che non avrebbe potuto evitare di
entrare nelle prime abitazioni che trovava per chiedere da bere o cibo.
Si diceva che in quei casi gli arabi facevano cortesemente entrare, offrivano
di ché dissetarsi e invitavano a riposarsi prima di ripartire.
Nel frattempo qualcuno andava ad avvertire i gendarmi che prontamente
arrivavano. Bastava che fossero intercettati anche a distanza per essere
perseguiti da arabi e gendarmi anche con i cani da caccia.
Nel febbraio
"55 finalmente terminò il periodo di addestramento, eravamo
tutti contenti di partire da quel luogo anche se la destinazione ci era
ignota.
Eravamo tutti pronti per la partenza, solo i disertori mancavano, essi
dovevano ripetere i sei mesi del CAR.
Quel mattino tutto il battaglione era schierato ad U nel grande piazzale
della caserma per esibirci in alcune dimostrazioni del completato addestramento
davanti ad un Colonnello venuto da chi sa dove. Gli ordini rimbombavano
nella caserma seguiti dai movimenti d'insieme perfetto nel maneggiare
le armi e dai frastuoni da esse provocati. Frastuono che l'eco ci rimandava
come un boato.
"Siete ormai dei soldati”, disse il colonnello rivolgendosi
al battaglione sull'attenti, “soldati per una Nazione che saprà
dimostrarvi la sua gratitudine. Siete ormai soldati francesi, trattati
e pagati come loro e alla fine del contratto avrete gli stessi diritti
e doveri di qualsiasi cittadino francese", terminò poi dicendo:
" La Francia vi ha adottati, siatene degni".
Partimmo
il giorno seguente intasati dentro a dei vagoni bestiame con la scritta
"Cavalli quarantotto, uomini centoventi". Direzione Tunisia.
Arrivammo a Tabarcà dopo un lungo viaggio e ci accampammo per alcuni
giorni sotto le tende in attesa di essere smistati nei vari reggimenti.
Mi destinarono al primo Battaglione del secondo Reggimento che raggiunsi
con altri pochi giorni dopo ad Ain Dramm.
Capitammo proprio in un periodo di piogge. Il reggimento era accampato
sotto le tende fuori dal paese e sommerso dal fango e dall'acqua. Il Reggimento
aveva appena fatto ritorno dalla sconfitta indocinese e i suoi uomini
erano scarsi. Si trovava lì di passaggio per alcune settimane,
il tempo di riorganizzarlo e saremmo ripartiti. Gli anziani ci accolsero
con benevolenza, niente ironie ne scherzi. I loro visi abbronzati dal
sole sorridevano solo quando, tra i nuovi arrivati reperivano un connazionale.
I loro racconti erano impressionanti e interminabili, ognuno riportava
dei ricordi dal lontano Estremo Oriente, ricordi di ogni sorta, foto di
ragazze, di mogli comprate, di figli abbandonati. Alcuni giuravano che
alla fine dei cinque anni sarebbero ritornati con le loro donne, altri
mostravano fieri le loro medaglie guadagnate laggiù. Pochi parlavano
dei morti, dei tanti morti, loro erano lì e ricordavano volentieri
i momenti migliori e basta.
La disciplina era meno rigida, i graduati meno arroganti ma sempre con
notevole autorità sin dai semplici caporali.
Sotto le tende non c’era più l'ordine perfetto, i letti erano
sempre ben squadrati come del resto il corredo alle testate. Non era più
l'incubo di Saidà. Il fucile e le munizioni restavano accanto ai
letti in permanenza, i servizi e le corvè erano distribuiti in
modo uguale senza distinzioni di anzianità o di razze. Il rancio
era sempre poco buono, fatto e consumato alla benemeglio, anche il caffè
era la solita scodella fatto con orzo.
Da lì
partimmo per Souk El Arbà un paesetto al nord della Tunisia.
Come Saidà, anche Souk El Arbà era composta da una minoranza
di europei, due o trecento che dominavano più di tremila arabi.
Ci installammo in una casermetta decente attorniata da mura fortificate
a forma di quadrato. Gli otto mesi trascorsi in quel paese sono stati
senza storie, qualche allarme, qualche pattuglia in vari paesi quali Biserta,
Cartagine, El-Gemm, Le Chèf, Teboursouk, Souk Aras, ecc.. Qualche
sfilata a Tunisi, ma niente di serio. Anche quando arrivò Bourguibà
al potere ci fu da sopprimere qualche subbuglio ma non si sparò
un colpo.
In caserma la disciplina era sempre rigida, oltre ai servizi di guardia
di picchetto o di pattuglia, di ritorno in caserma la disciplina, l'ordine,
le frequenti riviste e gli addestramenti riprendevano a ritmo incalzante
come le punizioni. Le lunghe ore di sentinella sulle torrette di guardia
specie di notte erano lunghe e cullate dalla quiete di quelle notti tiepide.
Era facile lasciarsi vincere dal sonno, solo il timore delle tremende
punizioni facevano sopportare gli interminabili rullii di tamburi provenienti
dai villaggi vicini, o i frenetici battibecchi delle cicogne.
In libera uscita eravamo ugualmente autorizzati a frequentare solo i quartieri
europei. Nei piccoli "bistrot" sempre affollati in particolar
modo da noi latini in cerca di un'avventuretta sentimentale a buon mercato
con una europea o un'indigena. Dico a buon mercato perché i soldi
scarseggiavano, circa undicimila franchi mensili, coi quali andare sei,
sette volte al massimo a cena fuori.
A Souk
El Arbà come del resto in tutti i paesi dove si erano installati
gli europei, vi era molta discriminazione tra questi e gli arabi. Anche
due persone che lavoravano assieme per lo stesso lavoro. Se uno era europeo
guadagnava diecimila franchi al giorno, se era arabo settecento, malgrado
il fatto che, generalmente l'arabo avesse molti più figli da mantenere.
Ma in genere gli europei erano dei coloni e regnavano in dittatori sulla
comunità indigena la quale, oltre ad essere sfruttata fino allo
schiavismo era disprezzata, maltrattata e sorvegliata da un servizio d'ordine
che si premurava solo di mantenere il predominio dei bianchi su di loro.
Noi eravamo lì per dargli man forte, per difendere quel pugno di
prepotenti e rischiare la vita se necessario per salvaguardare i loro
interessi. Vedevo quelle cose solo allora, quando firmai non ne ero al
corrente, pensai solo a tamponare le mie beghe personali.
La sera uscendo in paese venivamo rincorsi da nuvoli di giovinetti, maschi
e femmine sui dodici tredici anni che con la speranza di guadagnare qualche
centinaia di franchi ci offrivano i loro servizi o si prostituivano, disputandosi
l'eventuale cliente come dei commercianti che offrono una merce concorrenziale.
La miseria, le ingiustizie, i maltrattamenti e tanta prostituzione dapprima
mi stupirono, ma ben presto divenne uno spettacolo abituale di quei posti.
Otto mesi
dopo partimmo da Souk El Arbà per Ain Serruià, una zona
montagnosa vicino alla frontiera dove erano avvenuti alcuni attentati.
Ci installammo sotto le tende in piena foresta di alberi da sughero. La
compagnia era divisa in quattro squadre distanti l'una dall'altra qualche
chilometro e ognuna doveva controllare una certa zona. Anche la mia squadra
si accampò nella boscaglia e appena montate le tende ci mettemmo
a tagliare alberi e cespugli tutt’intorno per un raggio di oltre
duecento metri con pale e picconi, in modo che, in caso di attacco, gli
assalitori fossero allo scoperto. Il lavoro durò alcuni giorni
durante i quali una delle sezioni subì un attacco senza perdite
umane. Temevamo il ripetersi delle ostilità da un'istante all'altro.
Nella foresta vi era molta selvaggina: cinghiali, sciacalli, lepri, scimpanzé,
ma nessuna abitazione per diecine di chilometri.
I viveri ci arrivavano con un convoglio di camion che ci collegavano alla
base del battaglione ogni settimana. Le munizioni individuali ci erano
state raddoppiate. Io avevo un fucile M.A.S. 36 con cento cinquanta cartucce
e quattro bombe a mano.
Sentendo che poco lontano una sezione dei nostri era stata attaccata,
la prima notte di guardia non mi sentivo molto rassicurato. Era la prima
volta che mi trovavo allo scoperto e rimpiangevo le mura protettrici della
caserma.
Non c’era la luna ed era buio pesto. La consegna era quella di pattugliare
continuamente ai bordi dei cespugli al limite della macchia oscura della
foresta per un percorso di un centinaio di metri, e sparare se necessario
dopo aver intimato l'alt.
Le tende del campo erano lontano dietro di me e non le vedevo. Non ero
ancora molto esperto ma capivo che muovendomi costituivo un facile bersaglio
per qualcuno in agguato dietro i cespugli, perciò scelsi di restare
immobile tra gli arbusti circa a metà percorso di ronda per ascoltare
nel buio. I minuti passavano lentamente. Qua e là un ululato di
sciacallo o di altri animali, o ancora qualche uccello notturno. Per momenti
il silenzio era totale, solo un leggero venticello smuoveva le foglie
degl'alberi. In lontananza sentivo lo scricchiolio di rami spezzati.
Due ore in certi casi sembrano interminabili. Ad un tratto si alzò
non molto lontano un razzo illuminante color rosso. Ci siamo mi dissi,
questa sera tocca a noi, proprio ora che sono di guardia io. Che fare?
Se avessi visto qualcuno avrei dovuto sparare, ma un razzo? Non potevo
nemmeno abbandonare il mio posto per andare ad avvertire il caporale di
ronda. Forse i ribelli erano già appostati attorno al campo e non
aspettavano che un segnale per attaccare. Prima di dare l'allarme, prima
di svegliare tutti dovevo esserne certo, aspettiamo ancora un po' mi dissi.
Ad una cinquantina di metri sentivo tra gli alberi un calpestio di foglie
secche che nella foresta formavano un alto strato, mi pareva anche di
udire un bisbiglio di voci, deve esserci qualcuno mi dissi, sembravano
in molti anzi.
Cosa fare? Sparare? Chiamare? gridare l'alt? Ma no, forse mi sbagliavo
e in tal caso all'indomani tutti mi avrebbero deriso. Ah questo maledetto
buio, pensavo. E il caporale di ronda che non si fa vivo.
Lentamente per non fare rumore misi una pallottola in canna, però
se sono più di uno ad assalirmi non avrò il tempo di ricaricare
di nuovo, mi dicevo. Estrassi lentamente la baionetta e la innestai. Ormai
sentivo distintamente qualcosa avanzare tra il fogliame secco, forse erano
in una ventina di persone e nel punto in cui proveniva il fruscio qualche
uccello disturbato prendeva il volo.
Allora c’era davvero qualcuno. La baionetta puntata, il dito sul
grilletto, aspettavo di vederli sbucare col cuore in gola. Ma cosa aspettavo
a dare l'allarme? No, volevo essere certo di non sbagliarmi, d'altra parte
io avevo il vantaggio di sentirli, loro non mi vedevano e non sapevano
che ero lì. Il rumore si avvicinava e io trattenevo il respiro
il più possibile temendo di farmi sentire. Sbarravo inutilmente
gli occhi per cercare di vedere qualcosa ma solo l'udito poteva aiutarmi.
Ora sentivo chiaramente dei passi, ma provenienti dal mio fianco, non
dalla foresta. Forse ero circondato, appena lo vedo sparo, mi dissi. Ecco
l'ombra, lì a pochi passi, sparo? Pensai. Mi ricordai della consegna
e gridai " Alt! Parola d'ordine o sparo!”
" Tebessà ", mi rispose una voce." Avanti ",
replicai.
Che sospiro di sollievo, era il caporale di ronda. Tolsi la baionetta
prima che lui si accorgesse che l'avevo innestata.
"Niente di nuovo qui?",” sì”, dissi, “
poco fa hanno tirato un razzo in quella direzione”. "Lo so”,
rispose, l'ho visto anch'io, ma era molto lontano". "Ho sentito
anche dei rumori nel fogliame”, gli dissi indicandogli la direzione.
"Ah si?, devono essere delle bestie", rispose mentre raccoglieva
un sasso per gettarlo nella direzione indicata. Al tonfo del sasso ne
seguii una corsa precipitosa tra il fogliame.
Sorrisi anch'io pensando che per me era stata una bella lezione.
"Bèh” continuò il caporale allontanandosi, tra
venti minuti ti manderò il cambio". Restai nuovamente solo
ma tranquillizzato, mi veniva voglia di ridere. Che paura però
!.
Il mattino seguente andai a dare un'occhiata al posto in cui avevo sentito
i rumori perché non mi spiegavo il bisbiglìo sentito la
notte precedente. Sul posto la terra era stata mossa qua e là in
una larga striscia. Era stato un grosso branco di cinghiali e i loro sbruffi
li avevo scambiati per un bisbiglio.
Infatti la foresta ne era infestata e a volte andavamo a cacciarli accompagnati
dagli Harkì ( volontari indigeni ex combattenti in altri eserciti
francesi, ora volontari tra noi, come guide e interpreti ); oppure andavano
loro a cacciarli ma senza toccarli. Se a volte ne uccidevano qualcuno
si limitavano poi a segnalarci dov'era la preda abbattuta.
I tre mesi trascorsi in quel posto furono i migliori passati nella Legione.
Di giorno qualche pattuglia a piedi nella foresta, di notte qualche imboscata
ad un nemico immaginario. Anche la guardia di notte non mi impressionava
più di tanto, ero abituato ormai agli strani rumori della foresta.
Eravamo
nel dicembre del "55 e in Tunisia regnava una calma più o
meno generale. Qualcosa però cominciava a fermentare in Marocco.
Anche loro, dopo gli indocinesi e i tunisini, volevano l'indipendenza.
Siccome la Francia non manteneva la Legione per fare rischiare pericoli
ai suoi figlioli fu così che ai primi subbugli si partì
per il Marocco dopo che il battaglione fu riunito frettolosamente.
I vagoni bestiame ci portarono a Meknès dove facemmo tappa per
una diecina di giorni, al termine dei quali cominciammo a pattugliare
senza sosta su delle camionette scoperte in varie località: Rabat,
Casablanca, Marrakech, Agadir; per non parlare delle città più
importanti, sostando qua e là anche solo poche ore, sempre in tenuta
da combattimento e con le armi pronte. Mangiavamo razioni preconfezionate,
ossia il "Pacifique" contenente in ogni scatola la porzione
giornaliera, vale a dire: una scatoletta di tonno, una di sardine e un'altra
di manzo, cioccolato, pastiglie di sale, una bottiglietta di rum, un pacchetto
di sigarette, caffè solubile, marmellata, fiammiferi, e carta igienica.
In disparte pane o gallette.
Il 4 febbraio
del "56 ritornammo alla caserma di Mehnès che era ormai sera
dopo tanti giorni di pattugliamento autotrasportato. Poco dopo il nostro
arrivo ricevemmo l'ordine di ripartire con nuove scorte di viveri.
Viaggiammo
tutta la notte sostando brevemente di tanto in tanto. Solo a Boulemane
sostammo più a lungo. Ripartimmo per arrivare verso le dieci del
mattino in vista di un piccolo villaggio composto da un centinaio di catapecchie
indigene. Al centro delle quali vi erano una ventina di case di europei
dalle quali si elevava un denso fumo. Era successo sicuramente qualcosa.
Ci fecero scendere qualche centinaio di metri prima del villaggio per
farci avanzare a piedi distanziati.
Gli indigeni invece di ignorare il nostro arrivo come del resto erano
soliti fare, ci guardavano con paura cercando di non mostrarsi. Avanzammo
tra i baraccamenti arabi, sparpagliati con le armi alla mano.
Arrivati alle case europee ci si presentò uno spettacolo orribile.
Tra il fumo e il sangue coagulato giacevano cadaveri di uomini, donne
e bambini seviziati in modo orripilante. Una donna incinta era stata squartata,
alcuni bambini bruciati vivi, ragazzine violentate e sgozzate, un'altra
donna nuda aveva i seni tagliati.
Non vidi altro perché la mia squadra passò oltre per andare
ad appostarsi più in alto e prendere posizione tra alcune baracche
vuote mentre il resto della compagnia rastrellava il villaggio.
Mi domandavo chi avesse potuto fare una simile carneficina, sapevo certo
che l'odio degl'arabi verso gli arroganti coloni era giunto al culmine,
ma non mi spiegavo tanta furia selvaggia. Lo spettacolo visto mi dava
la nausea. Quanti potevano essere stati i cadaveri? Dieci? Venti? Qualche
sospettato venne arrestato e fatto parlare, il Kaìd del villaggio
era tra loro e manteneva il silenzio. Gli altri interrogati dissero che
una tribù vicina si era ribellata ai soprusi francesi ed era venuta
a compiere la strage per poi ritirarsi nelle sue zone. Tutti erano a cavallo.
Partimmo subito verso il luogo indicato dopo aver lasciato una squadra
in quel villaggio chiamato Immouser de Matmousciar.
In poche ore arrivammo al villaggio di Missoùr le cui costruzioni
tutte in terra rossiccia erano a due piani, senza finestre, come del resto
tutte le case arabe, ma a differenza delle altre che terminavano in terrazzi
queste erano composte di due o tre piani e finivano con i bordi merlettati
come castelli antichi.
Ci accampammo per la notte circondando il villaggio disponendoci in piccoli
gruppi. Benché avessimo già perquisito casa per casa non
trovammo altro che donne e bambini nessuna arma e niente di sospetto.
Gli uomini, secondo le informazioni percepite erano tutti a pascolare.
Qualche pollo finito negli zaini durante la perquisizione servì
da cena, ma non riuscimmo a mangiarli in pace perché le pulci raccolte
nelle case disturbavano, sia la cena che il controllo dei magri bottini
raccolti: anelli, braccialetti, cavigliere, orecchini dai quali penzolavno
tante medagliette, tutto in argento lavorato primitivamente era ciò
che avevamo trovato.
In quelle case non vi era niente di valore . Come tutte le abitazioni
non vi erano letti ne mobili, ne sedie, solo un po’ di paglia in
un angolo per dormirvici sopra vicino agli animali quando ne avevano.
Solo i più benestanti avevano in più all'interno delle case
un tappeto sul quale mangiare e dormire, qualche coperta di lana di pecora
fatta a mano da loro stessi, qualche anfora per il grano o per il latte
cagliato di pecora o di cammella, la teiera, la caffettiera, qualche bicchierino
sporco, qualche vecchio tegame e l'immancabile pelle di capra per la riserva
di acqua, qualche lampada a petrolio, dato che l'elettricità era
sconosciuta, tutto lì.
Restai
sveglio tutta la notte per dare la caccia alle pulci installate un po’
ovunque su di me, soprattutto nelle caviglie e nei risvolti dei pantaloni.
L'indomani sera ripartimmo per Immousèr de Matmouscàr dove
dopo due giorni partecipai ad una fucilazione, pare che fossero i principali
responsabili del massacro.
Li trasportammo in camion lontano dal villaggio, erano in tre legati e
sdraiati sul pianale del camion. Io mi trovavo nello stesso veicolo seduto
con i miei compagni sulle panchine laterali, mentre gli arabi erano ammucchiati
ai nostri piedi. Uno di loro avrà avuto una quarantina di anni,
gli altri due erano più anziani. Dai loro turbanti e dai loro vestiti
parevano di rango sociale più elevato della media. Arrivati in
un luogo deserto scendemmo per metterci in posizione di protezione in
una altura vicina che dominava il percorso che dovevano fare i condannati,
una trentina di metri per arrivare ad un alberello, ai piedi del quale
vi era una conca naturale. Vedevo bene tutta la scena. Il plotone di esecuzione
era pronto accanto all'albero, un'anziano dall’ Indocina aprì
la porta posteriore del camion dicendo ai prigionieri: " Ehi!, chi
di voi vuole essere il primo, non ci sono volontari? Prendiamo barbetta?
Gli rispose un compagno vicino. "No”, continuò il primo,”
cominciamo dal più giovane, alè scendi",disse tirandolo
per i piedi. Quello sulla quarantina ruzzolò a terra. Sostenuto
per le braccia si alzò, anche se era pallidissimo si notava un
volto duro. Si guardò intorno rapidamente, qualcuno lo spinse in
avanti gridandogli: "Cerchi ancora di scappare? Cammina!" Arrivati
all'albero, ve lo legarono contro e dopo averlo bendato partì una
prima scarica di fucile. Ebbe un sussulto seguito da un folto sgorgare
di sangue da sotto la djellabà, ossia quella specie di lunga sottana
in lana di pecora a strisce marrone e bianche con cappuccio.
Un sergente tagliò con un pugnale la cordicella che lo legava al
tronco dell'albero e il corpo ruzzolò nella conca sottostante.
Lo stesso sergente scese poi accanto al corpo per sparargli un colpo di
pistola alla nuca. Seguirono gli altri due, poi ripartimmo.
Immouser era situato sulla catena montuosa del Medio Atlas. Era il mese
di febbraio e il freddo era intenso. Eravamo installati nelle vecchie
catapecchie abbandonate fatte in terra col tetto costituito da rami secchi
e erbacce ricoperte da uno strato di terra che fungeva da terrazzo. La
neve era abbondante.
Trincerati in quelle catapecchie indigene, buie e fredde eravamo ancora
tra i fortunati a non avere delle infiltrazioni d'acqua dal tetto. La
mia compagnia aveva preso posizione e chissà quando saremmo ripartiti.
Noi eravamo con il Commando della compagnia ma la terza squadra si era
installata a venti chilometri più in su in piena montagna.
Quando non si lavorava per fare le fortificazioni ci facevano fare le
strade. Ci davamo da fare con mazze, picconi e pale sempre con i fucili
accanto. Una volta la settimana si andava a Talzèm coi muli per
portare viveri e posta alla terza squadra. La pista da percorrere era
stretta, tortuosa e ricoperta da un folto strato di neve. I muli stracarichi
spesso finivano a ruzzoloni giù per i pendii.
Nel frattempo
ci era pervenuta la voce che nel settore di Oujdà era scoppiata
la guerriglia tra marocchini e francesi. Ci aspettavamo di partire da
un momento all'altro.
A Immousèr la sera non si sapeva dove andare, non c’era nulla
aldifuori di qualche lugubre negozietto gestito da ebrei. Non c’era
nessun passatempo. Io, assieme ad altri tre spagnoli andavo spesso da
Braìmm a cenare. Era un negro alto e secco con un nasone enorme.
Viveva in due stanzone al piano terra, visto che quelle casupole erano
di un solo piano. Viveva con la moglie alta e grossa, dello stesso colore
di pelle, un donnone che ho sempre visto seduta in un angolo vicino all'ingresso
con lo sguardo nel vuoto. Avevano tre figlie dai tredici ai sedici anni.
La sera Braìmm, appena ci vedeva arrivare senza una parola cominciava
a radunare dei pezzetti di legna in mezzo ad una delle stanze. Accovacciato
a terra con le gambe incrociate accendeva il fuoco e cominciava a prepararci
il solito ammelèt con cipolla e venti uova.
Solo quando il fuoco era acceso completamente la stanza si rischiarava
un po’ mentre noi aspettavamo la cena seduti al suolo contro la
parete nuda e annerita dal fumo.
Allo scarso bagliore delle fiamme osservavo affascinato e preoccupato
Braimm, chino col volto sulla padella, mentre svolgeva il lavoro con gesta
lente e precise come fosse stato davanti ad un altare; temendo che non
arrivasse in tempo ad asciugare col dorso della mano la goccia che colava
dal grosso naso sfigurando quel suo viso scheletrico rischiando di finire
nell’omelette. Un lembo del suo turbante incolore penzolava sui
grandi occhi piagnucolenti e spenti. Lo usava di tanto in tanto al posto
del dorso della mano.
Nella penombra attraverso il fumo che non voleva uscire dal buco centrale
del tetto, osservavo le sue lunghe mani nodose e scheletriche maneggiare
la padella e il forchettone di legno, attizzando di tanto in tanto il
fuoco. Non si vedeva la moglie, ma la immaginavo fissa al solito posto
vicino alla porta. Le tre figlie, sedute su un mucchio di stracci contro
la parete opposta alla nostra, aspettavano con ansia che terminassimo
di mangiare per venire con noi nell'altra stanza completamente buia per
farci fumare il Kìff e fare all'amore; mentre Braìmm riprendeva
la sua posizione di interminabile attesa accanto alla moglie.
Prima di ripartire davamo al passaggio cinquecento franchi ciascuno. Braìmm
abbassava un po’ il capo in segno di ringraziamento, mentre le figlie
venivano fin sulla porta a salutarci per scomparire nel buio.
Partimmo
nell’ agosto del "56 da Immousèr di Matmousciàr
per Immousèr de Kandàr dove restammo tre mesi.
Dopo aver concessa l’ indipendenza alla Tunisia e al Marocco, i
sabotaggi cominciarono in Algeria. Le bombe al plastico scoppiavano nei
bar, nei cinema, nelle case dei grandi centri, mentre nelle periferie
delle città cominciarono gli attentati alle persone, soprattutto
ai coloni. Ecco perché nel novembre "56 il mio Battaglione
si riunì a Fez alfine di partire per l'Algeria.
In oltre due anni non avevo mai sparato un colpo e non mi ero mai trovato
in una battaglia, cominciavo a pensare che in realtà non vi fosse
poi tanto pericolo nella Legione, la gente è sempre esagerata,
pensavo.
Attraversammo la frontiera del Marocco e dopo brevi soste a Tlemcènn,
Algeri, Setìf, Costantine arrivammo a Djigellì, zona infestata
dai rivoluzionari dell'F.L.N. ( Fronte di Liberazione Nazionale), denominati
dai francesi Fellagà.
Appena arrivati il mio Battaglione venne trasformato in "Compagnie
pronto intervento trasportato", io venni assegnato alla decima.
Le compagnie vennero sparpagliate su un vasto settore con ognuna il compito
di sorvegliare una data zona.
Noi prendemmo posizione in un’area montagnosa e piena di boscaglie
tra Djigellì e Ziama-Mansourià.
Le strade che collegavano le principali città del nord erano costeggiate
dal mare da una parte e dai monti dall'altra. Monti che in certi punti
cadevano a strapiombo sulla strada, e proprio quelli erano i punti in
cui di solito i Fellagà attaccavano i convogli militari e le auto
dei civili con le armi o facendo ruzzolare dei massi .
Quel mattino del febbraio "57 ci svegliarono alle quattro, pronti
a partire in mezz'ora con zaino, due giorni di viveri e il necessario
per dormire sotto le stelle.
Una diecina di elicotteri del tipo "banana" ci attendevano poco
distante.
Prima di salire ci avvertirono che saremmo stati depositati vicino ad
un grande villaggio e la consegna era quelle di entrarvi per uccidere
tutti gli uomini dai quattordici anni in su.
Arrivati sul posto vidi che altre compagnie della Legione avevano già
accerchiato il villaggio. La mia compagnia si dispose in linea e cominciammo
ad avanzare verso il centro del villaggio.
Gli abitanti erano ancora a tutti a letto o in casa non si accorsero del
nostro arrivo o fecero finta credendo si trattasse della solita perquisizione,
ma gli spari cominciarono ad echeggiare per divenire in breve una sparatoria
incessante accompagnata dalle grida delle donne. In testa al mio gruppo
vi era uno spagnolo che col fucile mitragliatore sparava come un pazzo.
L'emozione piegava le mie ginocchia e lo sforzo per reggermi causava un
certo tremolio alle gambe. Davanti a me fuggirono tre giovani usciti da
una casa vicina. Mi passarono davanti a pochi passi, feci finta di non
vederli, ma poco più in là furono falciati da un tedesco.
Passando tra due baracche vidi un vecchietto ancora mezzo nudo con la
barba bianca, mi si pose innanzi con gli occhi smarriti tremando più
forte delle mie gambe, si era accorto che stavamo uccidendo tutti gli
uomini. Era lì davanti a me terrorizzato, gridava in lingua francese
di non sparare perché aveva combattuto quindici anni per la Francia,
e con mano tremante mostrava la medaglia guadagnata combattendo.
Il mio mitra era puntato su di lui, cosa fare? Avevo l'ordine di sparare
senza esserne capace. Avrei tanto voluto non averlo visto, ma era lì,
impietrito non scappava. "Bèh, cosa aspetti a sparare?"
Disse la voce del sergente alle mie spalle che aveva visto tutta la scena.
Era un Corso, un certo Anitei, era sempre stato negli uffici e solo da
poco lo avevano assegnato ad una compagnia operazionale. Tra noi due vi
era un po’ di simpatia, sia perché nasce spontanea tra Corsi
e gli italiani, ma soprattutto perché lui non era ancora "indurito"
dalla vita operativa. " Ma sergente”, gli dissi “ sto
poveraccio ha la medaglia al valore militare, ha combattuto quindici anni
per la Francia come posso sparare?" " Ma tu”, rispose
“ hai degli ordini o no?" Così dicendo armò il
suo Wincester e lo puntò all'arabo, io lo guardai fare. Rimise
la carabina in spalla dicendo all'arabo: " Harrùa ",
cioè vieni.
In realtà era emozionato come lo ero io, nemmeno lui aveva mai
ucciso a sangue freddo. Ci incamminammo tutti e tre attraverso il villaggio.
L'ondata selvaggia era già passata, noi eravamo rimasti indietro.
Passammo accanto ad un anziano accovacciato a terra ferito ad una coscia
che con le mani cercava di contenere il sangue che fuoriusciva abbondante.
Passammo oltre senza vederlo, ma dopo pochi passi una raffica mi fece
voltare. Il vecchio non si muoveva più, non eravamo i soli attardati.
Davanti a noi la sparatoria continuava tremenda, le grida tutt’intorno
erano accompagnate da scene incredibili e sconvolgenti. Da più
parti vedevo adulti cercare di scappare in tutti i sensi, ma le raffiche
e gli spari li raggiungevano da ogni parte. Vicino vedevo raggruppare
gli uomini e falciarli assieme. Dietro al mio sergente mi sentivo in disparte,
la nostra parte era stata fatta, in più dovevamo badare al nostro
prigioniero.
Tutto era tremendo, irreale pareva l'apocalisse. Molti dei miei compagni
erano irriconoscibili. Quell'inferno li aveva tramutati in spietati esecutori
di morte e l'orrore pareva eccitarli a uccidere con spietata freddezza.
Finalmente
arrivati all'altra estremità del villaggio ci arrestammo un istante
durante il quale consegnammo il prigioniero al Tenente che lo accolse
disapprovando, mentre i capi squadra ci chiedevano se avevamo bisogno
di altre munizioni siccome non era ancora finita. Infatti ripassammo nel
villaggio per uccidere tutto il bestiame. Ne approfittai per uccidere
un cammello usando un caricatore intero per far vedere che anch'io avevo
sparato. Terminato il massacro ripassammo nel villaggio per la terza volta
incendiando tutte le casupole.
Mai dimenticherò
quel giorno, l'odore degli scoppi, del sangue, le grida, le raffiche.
Donne che cercavano disperatamente di estrarre i cadaveri dalle fiamme,
ragazze violentate, picchiate e forse anche uccise. Mi pareva incredibile
che tanti miei compagni apparentemente equilibrati, trovassero godimento
in quell'inferno di Dante e si vantassero per quanti ne avevano uccisi.
Compiuto il misfatto ci avviammo in colonna attraverso i monti vicini.
Passando davanti al comando della mia compagnia ebbi una piccola sorpresa:
Il vecchietto a cui non avevo sparato era lì in piedi con la radio
ricetrasmittente militare sulle spalle. Era l'unico uomo del villaggio
sopravvissuto e lo doveva a me, ero contento. Passandogli davanti gli
feci un cenno di saluto, ma lui mi guardò intimorito, non mi aveva
riconosciuto.
Ci accampammo
per la notte su di un monte che in linea d'aria non superava il chilometro
di distanza dal villaggio saccheggiato. Attorno ai fuochi i gruppetti
si formarono come al solito tra i più amici ma sempre divisi, i
latini dai nordici. Attorno al nostro fuoco eravamo in sei tra italiani
e spagnoli. C’era chi si apprestava a cenare col solito scatolame
chi invece tirava fuori dallo zaino qualche pollo, qualche condimento
per far su una cena un migliore, mentre altri controllavano il bottino
trovato di chincaglierie varie. Io quella sera non avevo fame, avevo lo
stomaco in subbuglio.
Era quasi notte e i miei compagni si apprestavano a farsi un giaciglio
per la notte con erbe e foglie secche dopo aver discusso degli eventi
della giornata. Attorno ai posti scelti per dormire, ognuno aveva fatto
come al solito un muretto di pietre per ripararsi dal vento ma soprattutto
per proteggersi in caso di attacco notturno.
Non riuscii ad addormentarmi subito. Immagini terrificanti mi passavano
per la mente mentre in lontananza si scorgeva ancora il fumo nerastro
che si elevava dal villaggio in rovina. Le grida di dolore delle donne
giungevano sino a noi nel silenzio del crepuscolo come una nenia lontana,
lugubre e continua.
Quanti saranno stati i morti? Trecento? Quattrocento? Lo spagnolo dal
fucile mitragliatore si vantava di averne ucciso una ventina solo lui.
( Si seppe solo in seguito che la strage era motivata per il fatto che
il giorno precedente una compagnia di paracadutisti della Regolare francese
erano entrati nel villaggio per effettuarvi un controllo di documenti
degli abitanti. Tutto si era svolto regolarmente ma nel lasciare il villaggio
i parà caddero in una imboscata perdendo venticinque uomini, per
rappresaglia i francesi ci fecero distruggere tutto).
I francesi
in Algeria agivano duramente rispondendo col terrore al terrore. Dopo
aver perso l'Indocina, il Marocco e la Tunisia, non intendevano lasciare
anche l'Algeria che consideravano non una colonia, ma una seconda metropoli
in Africa, cercando di non lasciarsi sopraffare sin dall'inizio e mantenere
la supremazia con tutti i mezzi.
Ma i coloni avevano tirato troppo la corda e si erano fatti odiare. Finché
andava bene così la Francia li appoggiava, poi finì col
riconoscere che i coloni avevano esagerato sebbene fosse troppo tardi.
Gli attentati e le imboscate si intensificavano sempre più sia
nei grandi centri come nelle periferie.
Le zone forestali e montuose erano propizie agli agguati e i ribelli rimanevano
quasi sempre introvabili. Colpivano e sparivano per confondersi tra gli
altri, mentre noi ci mandavano in tutti i punti più caldi per sopprimere
o per prevenire gli scontri armati, con l'aiuto dei soldati della "Regolare
francese" . Incendiavano con bombe al Napalm la boscaglie per impedire
che i Fellagà vi si nascondessero dentro.
Le case isolate dei coloni erano i bersagli preferiti dai ribelli. Uccidevano
incendiavano, torturavano, terrorizzano, rubavano e sparivano lasciandosi
dietro fumo fuoco e morte.
Il nostro compito divenne così quello di condividere la loro sorte,
proteggerli o morire con loro. Gente solitamente prepotente, egoista e
abituata a trattare gli indigeni come schiavi. Non mancavano di far risentire
anche su di noi un'autorità che gli era abituale.
Ci sparsero
in gruppetti di otto per ogni cascina. Io mi trovavo con altri sette compagni
presso un colono importante della zona. Lui, un francese sulla cinquantina
era nato lì dove viveva con la moglie, due figlie e tre maschi.
Con loro una quindicina di indigeni alloggiati in un capannone ad un centinaio
di metri dalla casa. Noi ci eravamo installati in una vecchia rimessa
attaccata alla casa stessa. Due volte al giorno venivano i nostri con
un camion a portarci il rancio caldo.
Il nostro lavoro consisteva nel fare una sorveglianza continua giorno
e notte. In tre mesi di permanenza alla cascina mai una volta ci fu offerto
un frutto o una bevanda, anzi, un giorno mentre il figlio più vecchio
pattugliava le sue terre col fucile in spalla scoprì uno dei miei
compagni che mangiava della frutta. Gli disse severamente che bastavano
i ribelli a depredarlo senza che ci si mettessimo anche noi. A quel punto
il mio compagno se ne andò dicendogli:"Quanto odio gli arabi
per non avervi ancora fatto fuori tutti".
Tale egoismo in fondo non ci meravigliava più di tanto, bastava
vedere in che modo trattavano gli indigeni al loro servizio gli davano
settantacinque franchi al giorno, appena sufficienti per acquistare un
pacchetto di sigarette. Una volta al mese il "canùn",che
comprendeva per ognuno dieci chili di farina, cinque di semola per il
cùs-cùs, un litro di olio, un po’ di tè, caffè
e zucchero doveva bastare per un mese; in cambio dovevano lavorare quattordici
quindici ore al giorno, accompagnate da qualche randellata. E cosa non
fa fare la miseria. A capo dei manovali eleggevamo tra loro il più
dominante che per qualche regalia in più diventava nei confronti
dei subalterni più feroce dei padroni stessi.
Intanto
la situazione terroristica peggiorava sempre più. Nelle cascine
fummo sostituiti dalla "Regolare francese", mentre per noi altri
compiti ci attendevano.
Giugno
"57. La decima compagnia si raggruppò a Ziama-Mansuorià
in un accampamento protetto da larghi strati di reticolati. Eravamo accampati
sotto tende circondate da alte pareti rocciose. Speravo dentro di me che
vi fosse qualcuno dei nostri là sopra a sorvegliare, perché
sarebbe stato sufficiente che qualcuno avesse gettato giù dei massi
per fare di noi una frittata. Fortunatamente nei nostri letti non ci eravamo
quasi mai.
Ci avevano radunati lì per essere sempre pronti in qualsiasi intervento
richiesto e non avevamo più un instante di tregua. Le schiere ribelli
diventavano sempre più audaci, oltre agli attentati al plastico
nelle città, facevano attacchi ai coloni, ai convogli militari
e civili. Ora attaccavano anche gli accampamenti militari e le caserme
e noi correvamo in tutti i luoghi dove avvenivano gli attacchi a sorpresa.
A volte dopo aver rullato sulle camionette per giorni o notti intere o
dopo aver marciato per ore ed ore nella boscaglia si arrivava sul posto
per trovare una o più case bruciate e nelle macerie ancora fumanti
con cadaveri europei ma anche indigeni sospettati collaborazionisti coi
francesi. Si partiva allora guidati dagli Harkì, sulle tracce dei
Fellagà. Tracce che finivano per scomparire in qualche grosso centro
abitato. Ecco perché si cambiò tattica e da allora ogni
nostro intervento venne fatto con elicotteri.
Ogni città, paese o borgata vennero circondate da spesse barriere
di reticolati e dopo il coprifuoco serale nessuno poteva ne uscire ne
entrare senza un permesso speciale e nemmeno si poteva circolare per le
vie.
Nei dintorni immediati ove avveniva un attacco venivano effettuati degli
arresti tra gli indigeni che con le buone o le cattive dovevano ciò
che sapevano o avevano visto.
Qualcuno non parlava per timore dei Fellagà, per patriottismo o
perché effettivamente non sapeva niente, in tal caso scomparivano
dietro le mura del "2° Bireaù", una specie di "Gestapo"
francese dove raramente, dopo essere stati torturati ne uscivano vivi.
Per gli indigeni che volevano restare neutri nel conflitto la vita era
disperata, essendo essi sospettati sia dagli uni che dagl'altri e sempre
soggetti a perquisizioni, controlli e verifiche di ogni sorta. Se poi
un attentato avveniva nei loro paraggi, per evitare le torture dovevano
dire ciò che sapevano ai francesi, ma parlando si esponevano alle
rappresaglie dei Fellagà che ritornavano di notte a vendicarsi.
Erano considerati traditori dai francesi se aiutavano i ribelli, lo erano
per i ribelli se aiutavano i francesi, lo erano per entrambi se non aiutavano
nessuno.
Questo il motivo per cui gran parte dei contadini e di nomadi scelsero
di riunirsi con le famiglie e gli animali in campi di concentramento circondati
dai reticolati e sotto stretta sorveglianza attorno alle caserme, ai fortini,
o nelle periferie dei paesi già rinchiusi dentro le barricate dei
reticolati e sorvegliati dai militari che approvavano tale iniziativa
e la incoraggiavano promettendo loro aiuti alimentari e assistenza medica.
In tal modo ogni caserma o forte militare era affiancato da immensi recinti
di indigeni che venivano volontariamente ad asseragliarvisi sotto la protezione
dei militari e lì rimasero fino all'indipendenza, dopo di che,
dovettero fare i conti con i Fellagà che ritenendoli traditori
ne mutilarono e ne uccisero parecchi. Certuni si rifugiavano dietro ai
reticolati dopo aver svelato un nome, indicato una casa o un villaggio.
Si partiva allora precipitosamente verso l'obbiettivo indicato, per questo
gli elicotteri divennero per noi un mezzo di trasporto abituale. Ci servivano
per effettuare rastrellamenti a sorpresa, perquisizioni lampo o piombare
addosso ad una banda di ribelli in fuga.
Servivano soprattutto per farci arrivare di sorpresa nei villaggi da perquisire
dopo che già si trovava circondato. Se nel villaggio veniva trovato
qualche segno di bellicosità cominciavano le rappresaglie: Ammassamento
degli uomini in un punto del villaggio e qualcuno doveva parlare altrimenti
erano torturati sul luogo stesso, uno ad uno finche non si sapeva la verità.
Le loro case venivano distrutte, le donne violentate, il bestiame trucidato
o sequestrato, i magazzini svaligiati. Quando non si trovava niente, lasciavamo
il villaggio solo un po’ in disordine: le anfore più grosse
venivano rotte per controllarne il contenuto, la legna, gli sterpi e il
fieno veniva messo sottosopra per cercare botole o eventuali svuoti nelle
mura.
A missione compiuta, se non ve ne erano altre urgenti si faceva ritorno
a piedi. Ci accampavamo verso sera in piena natura riuniti per gruppi
nelle alture dominanti, e dopo aver scavato in fretta la piccola trincea
individuale, ci sedevamo attorno ai fuochi che i più affamati avevano
già acceso. Aprivamo gli zaini e ognuno tirava fuori il bottino
per dividerlo con il gruppo. Galline, tè, caffè, zucchero,
pomodori, uova ecc., oltre ai soliti anelli, braccialetti, fular e profumi
a buon mercato. Così raccolti attorno ai fuochi si mangiava, si
discuteva, si fumava, prima di prepararci a passare la notte a terra tra
le rocce per i più prudenti o su uno strato di erbe per i più
delicati. Gli scorpioni che erano numerosi non ci facevano più
paura, solo un attacco improvviso di notte era da temere, ma le sentinelle
vegliavano in permanenza.
Ottobre
" 57.
Man mano
i francesi perfezionavano i loro metodi di intervento, i Fellagà
invece perfezionavano quelli di sabotaggio.
Le improvvise irruzioni nei villaggi con gli elicotteri non avevano più
l'effetto iniziale, o vi trovavamo solo donne e bambini, o erano recentemente
e precipitosamente abbandonati. I segni erano eloquenti: focolai ancora
accesi nelle case, minestra lasciata a metà nelle ciotole, ecc..
Qualcuno probabilmente li avvertiva e doveva essere gente ben piazzata
in alto perché nemmeno agli ufficiali e sott'ufficiali non venivano
comunicati gli ordini che all'ultimo istante.
La vita
di ogni giorno era una continua scorreria, in qualsiasi momento poteva
succedere un imprevisto, un rischio maggiore o diverso da quello vissuto.
Una vita dura ma che aveva un certo fascino su di me, malgrado gli inconvenienti.
Quando si rientrava al campo, a volte dopo sei o sette giorni di continuo
vagabondare stanchi, sporchi e con la barba lunga, i miei compagni erano
contenti di ritrovare finalmente un letto e farsi una doccia. Io lo ero
meno felice di loro perché appena rientrati ricominciava subito
la disciplina che odiavo e che fuori non c’era. Appena arrivati
si ricominciava subito con le riviste di armamento, di camerata, le corvè
per il lavaggio dei panni personali e i soliti lavori di fortificazione.
I tedeschi appena si rientrava, soprattutto se si era ai primi del mese
e avevano ricevuto la paga, cominciavano ad ubriacarsi e a farne di ogni
colore. Si bisticciavano e vomitavano dove gli capitava. Preferivo essere
fuori in piena natura anche se lo scatolame cominciava a darmi la nausea.
Il sergente
Anitei fin dal suo recente arrivo tra noi, aveva formato una squadra di
volontari per andare quando si era al campo, di notte, a tendere imboscate
nei pressi di cascine abbandonate e sospette di raggruppamenti di Fellagà.
Ero spesso tra i volontari, sia per non montare la guardia al campo, sia
perché il giorno seguente si era liberi di restare a letto senza
partecipare ai lavori di fortificazione nel campo o fare le solite riviste
e gli addestramenti.
Quando restavamo per alcuni giorni al campo uscivo dunque volontario di
notte col sergente e altri cinque compagni.
Partivamo in colonna silenziosi e armati fino ai denti, andavamo ad appostarci
per ore in luoghi diversi a pochi chilometri dall'accampamento. Travestiti
da arabi, con la testa coperta dal cappuccio dalla Djellabà, con
la pistola lanciarazzi la bussola e i razzi a mano, oltre alle armi in
dotazione. Prima di partire dovevamo lasciare al campo ogni oggetto che
potesse servire a identificarci, compreso il grado e l'unità di
appartenenza. Si partiva alle ventidue e si restava in agguato fino alle
tre o alle quattro del mattino.
Una notte ci appostammo lungo una pista indicataci da un prigioniero quale
passaggio di alcuni agenti di contatto Fellagà. La pista era situata
in mezzo ad una fitta boscaglia, ma il punto in cui ci appostammo era
uno spiazzo ricoperto solo da erbacce.
Verso le due del mattino sentimmo un chiaro calpestio tra le foglie secche
in avvicinamento. Ero vicino al sergente che mi disse: " Stanno arrivando,
li senti? ", feci cenno di sì e lui continuò "Avverti
gli altri di tenersi pronti al mio ordine".
Avvisai gli altri che a due a due erano appostati poco lontano. Era una
notte senza luna con visibilità quasi nulla. Il calpestio si avvicinava
finché ad un tratto sbucarono dal bosco diverse sagome nere, ma
non sulla pista. Camminavano di lato passando ad una trentina di metri
da noi. In un sussurro il sergente chiese: " Pronti?, fuoco! ".
Le armi automatiche vomitarono assieme per non arrestarsi che quando i
caricatori furono scarichi, e nei pochi istanti di calma necessari per
innestare nuovi caricatori si sentì correre tra il fogliame in
più direzioni. Sul posto erano rimaste alcune delle sagome che
sentivo smuovere e ansare, una di esse addirittura veniva verso di noi,
ne seguirono altre raffiche poi un gran silenzio. Il sergente fece partire
un razzo rosso per segnalare al comando che avevamo preso contatto coi
Fellagà e restammo appostati. Pochi istanti dopo accorsero i rinforzi
che si giunsero a noi dopo i segnali di riconoscimento.
Era la compagnia al gran completo che, sentita la sparatoria e visto il
razzo era accorsa in tutta fretta. Alcuni legionari erano ancora mal fagottati
ma ben armati.
Si sparpagliarono a terra circondando la zona sospetta e così restammo
sino all'alba. Nel frattempo il capitano si era avvicinato al sergente
chiedendogli sottovoce quanti erano e da che parte erano fuggiti.
All'alba rastrellammo la zona. A terra vi erano tre cinghiali e del sangue
sparso.
Il capitano stava per arrabbiarsi, ma al pensiero di qualche pasto migliorato
per tutti si calmò prendendo il tutto con tono scherzoso.
Per qualche tempo non ci furono più imboscate perché uscimmo
per vari giorni marciando tra i monti a rastrellare e perquisire, ma al
ritorno al campo le imboscate ripresero ed io ero sempre con loro.
Quella sera eravamo pronti a partire verso le ventuno, io, Molitor il
tedesco, Molinas lo spagnolo, Urbani l’italiano, e altri due tedeschi
più il sergente Anitei.
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