Capitolo I - I miei Ricordi nella Legione Straniera


Parte I


Una mano si appoggiò sulla mia spalla squotendomi rudemente. Mi svegliai di soprassalto e vidi un gendarme chinato su di me che mi fissava senza particolare simpatia. " Passaporto " mi chiese. Esausto dalla interminabile camminata del giorno precedente e ancora assonnato, mi voltai verso il mio compagno di sventura, che si era assopito accanto a me nella sala d'attesa della stazioncina ferroviaria di Modane. Era un uomo di origine calabrese soprannominato Tino. Mi rivolsi a lui sperando in un aiuto, ma era anch'esso alle prese con un secondo gendarme. Avevamo fatto conoscenza a Torino, dove assieme vendevamo sigarette di contrabbando in piazza Porta Palazzo, quando decidemmo di partire da Torino per Bardonecchia, incamminarci per attraversare le Alpi a piedi, appunto da Bardonecchia a Modane.

Mi sentivo angosciato dal fatto che, appena arrivati in Francia, ci presero immediatamente in trappola, subito dopo aver fatto tanti progetti, di lavoro, di risparmi, di una vita migliore in Francia.
Feci segno che ero sprovvisto di passaporto, come del resto il mio compagno, al ché, ci dissero di seguirli in gendarmeria.
Dalla stanchezza mi girava la testa, i muscoli e le articolazioni mi facevano male per il lungo sforzo. Saranno state le due dopo mezzanotte quando ci avviammo scortati verso la caserma vicina.
Nell'ufficio del comandante cominciarono ad interrogarci, io non capivo una parola e loro parlavano solo il francese. Tino capiva alcune parole e mi traduceva di quando in quando come poteva.
Uno dei gendarmi, forse il capo, era seduto dietro un tavolo, un'altro gli era accanto e batteva a macchina i nostri discorsi, mentre un terzo ci sorvegliava attentamente. " Allora non avete il passaporto ? " “ No." “Da dove venite? " “ Da Bardonecchia rispondeva Tino ”. "Quando siete arrivati in Francia?" “ Ieri sera”. " In che modo siete arrivati? " “ A piedi ”. " Cosa siete venuti a fare qui?" “ Siamo venuti per lavorare”, continuava a rispondere Tino. Io guardavo un po’ l'uno un po’ gli altri, cercando di capire qualcosa, stando in piedi assieme al mio compagno, di fronte ai tre che ci guardavano con sospetto.
Eravamo in un ufficio tetro, i muri che un tempo dovevano essere stati bianchi ora, erano screpolati, decorati da un solo grande manifesto dirimpetto a noi che rappresentava un soldato con uno strano cappello cilindrico bianco sulla testa. Una specie di tendina gli copriva la nuca, mentre dalla visiera sporgeva un viso duro, arso dal sole. Sopra la sua testa una scritta grande: " Legion Etrangere ". Mentre fissavo incantato quell'immagine l'interrogatorio proseguiva. " Sapete che non potete restare senza passaporto? " Continuò quello che doveva essere il capo.
Ci registrarono i nomi, gli indirizzi, e ci fecero firmare il rapporto." Bene, bene”, continuò il capo, “sarete riaccompagnati alla frontiera, a meno che.... a meno che non decidiate di arruolarvi nella Legione Straniera”. Io e Tino ci guardammo perplessi. "La firma”, continuò lui, “ è di cinque anni, all' ingaggio avrete un premio di cinquantamila franchi. Probabilmente sarete inviati in una colonia dell'Indocina, del Madagascar, o in Africa dove prenderete una buona paga”, e, aggiunse con una strizzatina d'occhio complice, “non mancano le donne. D'altra parte, quello per voi è il solo mezzo per guadagnarvi il diritto a rimanere in Francia, anche per sempre a lavorare, ottenendo così la legalità e il diritto alla cittadinanza francese. Perciò, pensateci su, domani mattina mi darete una risposta: Legione o rimpatrio ". Così dicendo fece cenno ad un subalterno di accompagnarci fuori dall' ufficio.
Ci rinchiusero in una cella piccola e buia che puzzava di sporcizia e disinfettanti, con una tripla mandata alla serratura della porta blindata. Solo più tardi ci buttarono dallo spioncino due coperte militari. Ci coricammo a terra senza dirci una parola e cercammo di dormire.
Eravamo troppo stanchi e rammaricati per parlare, non sapevamo chi incolpare della nostra sfortuna.
Non che io e Tino fossimo grandi amici, ma, quando a Porta Palazzo parlammo, capimmo di avere entrambi le stesse intenzioni, quelle di attraversare la frontiera e di abbandonare la vita di piccoli contrabbandieri. Vita dove si vivacchiava a stento dormendo in una locanda in enormi cameroni assieme ad altri trenta o quaranta "ricconi" come noi.

Mentre pensavo, capii dalla sua respirazione regolare che Tino si era addormentato, io al contrario non vi riuscivo, forse per la stanchezza. Mille cose mi passavano per la mente: Cinque anni. Forse ci sarà da fare la guerra. Cinque anni sono tanti, ma a ritornare in Italia cosa avrei fatto? Dove sarei andato? A Porta Palazzo non volevo più fare ritorno. A casa dai nonni dove avevo vissuto, non ero gradito. Avevo diciott'anni compiuti, senza nessuna prospettiva di migliorare un'esistenza che sino ad allora non era mai stata tenera con me. Dovevo tentare qualcosa, anche se era rischioso.
Cercavo di dormire, ma troppe cose mi passavano per la mente. Rivedevo il paesino di Magreta dov'ero nato e vissuto. Nato in una squallida borgata chiamata "Ergastolo". Mia madre morì poco dopo la mia nascita, restammo io e mia sorella di tre anni con un padre più premuroso della propria indipendenza, che della responsabilità di allevarci. Così che ci "piazzò" dai nonni, io da quelli materni, mentre mia sorella dalla nonna paterna. Liberatosi da ogni legame, nostro padre, fu così libero di dedicarsi senza limiti alla vita che gradiva, cioè all'alcool e al gioco. In tal modo ci trovammo separati tutti e tre.
Nelle nuove famiglie non fummo certo accolti con la fanfara, la nonna dove fu mandata mia sorella era povera, vecchia e sola. Sebbene fosse tanto buona non poté fare a meno di metterla, a soli tre anni, in un orfanotrofio.
I miei nonni invece, erano benestanti e proprietari di vari immobili. Il nonno che batteva tutti i record di tirchieria, mi accettò a denti stretti solo perché in giro non si mormorasse che lasciava il figlio di sua figlia, di circa diciotto mesi, in casa di quell'ubriacone che era mio padre.
L'orfanotrofio sarebbe stato anche il mio destino, se il timore per ciò che avrebbero detto i vicini non avesse superato quello del costo del mio mantenimento. Fui dunque accettato con grandi sospiri di rassegnazione in attesa di trovare un rimedio che non facesse perdere la faccia coi vicini.
C'è inoltre da dire che in me, il nonno vedeva l’immagine di mio padre che odiava terribilmente, perché gli rimproverava l'avvenuta morte di mia madre. Qualsiasi cosa io facessi, persino quella di mangiare troppo, diceva lui, era sempre la conferma della mia somiglianza a mio padre, e ribadiva la morale che da un pero non è possibile ricavarne un melo.
I soldi erano il suo sangue, il suo mondo. Li teneva nascosti in casa perché non si fidava delle banche, e ogni tanto li nascondeva sotto le botti del vino in cantina per dargli aria. Questo lo so, perché una volta dalla finestra ho visto i bigliettoni che sporgevano dagli scatoloni sotto i bancali delle botti. Credendo allora di fargli cosa gradita corsi a dirgli di fare attenzione, perché dalla finestra si vedevano, ma non fu così, restò pietrificato non sapendo se svenire o rimproverarmi.
Era un dramma per lui, quando ogni fine settimana la nonna doveva chiedergli le mille lire per la spesa. Il momento da passare per lei era terribile, si avvicinava al nonno con passo esitante raschiandosi la gola per attrarre la sua attenzione ingoiando a fatica la saliva. L'atmosfera si faceva pesante, lei in quei momenti sembrava più fragile e piccolina del solito. Lui, panciuto e non tanto alto, era facilmente irascibile ma mai violento, restava lì seduto a leggersi il giornale, fingendo di non vederla, solo man mano si avvicinava cominciava a dimenarsi nervosamente sulla sedia intuendo la richiesta. Quando gli era vicina cominciava a saettarla con lo sguardo.
"Bhe”, cominciava lei”, devo andare a fare la spesa...." Un rantolio scocciato ne era la risposta. Poi, alcuni attimi di silenzio tombale, lei rimaneva lì in piedi e lui fingeva di aver dimenticato. Seconda richiesta, altro rantolio più nervoso poi scattava: " Ma insomma, si può sapere dove spendi tutti quei soldi?". Il ghiaccio era rotto e lei, come ogni volta doveva enumerare gli articoli indispensabili che aveva dovuto acquistare e quelli che mancavano per rimediare un minestrone, dal momento che la carne, quando non era il solito polmone, c’era solo la domenica, un pezzettino ciascuno. Sapeva bene che la nonna non spendeva senza necessità, ma voleva "covare" ancora un po’ il bigliettone da mille tanto amato. E sapeva anche che, tale commedia in fondo era inutile, ma tutto ricominciava puntuale la settimana dopo.
I suoi tre figli adulti che completavano il nucleo familiare, erano nei miei riguardi di una correttezza distaccata. Non ci fu mai intimità di nessun genere tra noi, tanto meno incomprensioni.
La nonna, al contrario del nonno, aveva un carattere mite, piena d'amore per i figli e forse anche per me se fosse stata più libera di esprimersi. Doveva però "affiancare" il nonno nella sua valutazione negativa nei miei confronti. Talvolta di nascosto da lui mi dava un po’ del suo affetto. Le capitava anche di tanto in tanto, di darmi un uovo fresco da bere, rischiando la collera del nonno se ci avesse sorpresi. Tutto ciò a patto però, che fossi andato a berlo di nascosto in solaio e che avessi ben fatto scomparire il guscio prima di scendere.
A volte li sentivo parlare di "piazzarmi" in un orfanotrofio, altre bisbigliavano di adottarmi,” tanto”, dicevano, “ormai lo abbiamo qui ! ”. Talvolta dicevano che sarebbe stato preferibile che me ne fossi andato e in questo caso mi avrebbero dato la mia parte di eredità, consistente in cinquantamila lire, finivano però senza decidersi per l'una o l'altra soluzione.
Rimasi con loro fino a quindici anni, da un lato riconoscente per avermi allevato ma con la convinzione che lo avessero fatto più a causa dell’opinione dei vicini che per me. Non riuscii mai a ricambiarli se non con lo stesso poco affetto.
Troppe volte mi hanno fatto capire, anche chiaramente che non ero, e che non sarei mai stato uno di loro. Troppe volte mi indicarono la porta di uscita come soluzione benefica per tutti, forse per quello non ne conservo un buon ricordo.

Finita la quinta elementare cominciai a lavorare a Modena in un laboratorio di cromatura e nichelatura metallica, un mestieraccio che, oltre ad essere pesante, mi costringeva a percorrere ventiquattro chilometri al giorno per recarmicisi e ritornare con una vecchia bicicletta, e spesso con una mela e un pezzo di pane come pasto del mezzogiorno.
Le millecinquecento lire mensili che guadagnavo, e che davo interamente in casa, calmavano un po’ il nonno per la rovinosa perdita dovuta al mio mantenimento. Tuttavia, un anno dopo, ammalato e scarno, fui costretto a smettere, dietro consiglio del medico per evitare gravi conseguenze fisiche.
Il mio desiderio era di poter lavorare autonomamente, perciò chiesi al nonno la somma necessaria per avviarmi al mestiere di venditore ambulante. Dapprima fui deriso, sempre per il fatto che, essendo figlio di mio padre, non potevo che fare fiasco, poi, grazie alla mia insistenza, scocciato mi disse: " Ascolta bene, ti offro mille cinquecento lire, ma se ci rimetti, non farti mai più vedere, intesi? ". Avevo poco più di tredici anni, ma il coraggio e l'iniziativa non mi mancavano. Presi quei soldi e comprai qualche laccio da scarpe, qualche pezzo di sapone, saponette, degl'aghi, alcune scatole di filo, del lucido da scarpe e altre babiole che misi in una piccola cassettiera che conservo tuttora, inforcai la solita vecchia bicicletta e partii.

Nel frattempo la nonna paterna si riprese mia sorella Teresa dal collegio e malgrado le difficoltà economiche la fece studiare da maestra con la sua misera pensione di levatrice.
Nostro padre continuava a scorrazzare con gli amici, che puntualmente gli prelevavano i rari soldi guadagnati, col gioco della morra, o quando riusciva a ricavarli dal suo mestiere di calzolaio del quale si ricordava solo di tanto in tanto quando era in bolletta. Con lui ci vedevamo qualche volta, la domenica, e in tali occasioni gli capitava anche di allungarmi, quando ne aveva, qualche centinaio di lire. Talvolta sentivo parlare di lui quando lo trovavano al mattino coricato in un fosso dove aveva passata la notte ubriaco stecchito; oppure quando finiva in galera per il furto di un pollo o di una bicicletta.
Non ero certo fiero di mio padre, ma neanche lui di me che ero piccolo e magrolino. Un giorno si era fatto fotografare assieme ad un giovanetto della mia età, alto e di bell'aspetto e ogni tanto mostrava quella foto dicendo che quel ragazzo era suo figlio.

Un anno dopo l'inizio della mia nuova carriera di ambulante, malgrado i versamenti settimanali al nonno di una quota in cambio del vitto, il mio capitale ammontava a cento cinquantamila lire. Andavo in giro con due cassettoni sulla bici, posizionati uno davanti e uno dietro, dai quali sporgeva solo la mia testa a patto che la tenessi ben alta per vederci. Riuscire a portare quella mole era una questione di abitudine, il peso era tale per cui, quando cominciavano a piegarsi da una parte non riuscivo più a trattenerli.
Mi è difficile dimenticare le faticate che facevo con quel carico sproporzionato alle mie forze, soprattutto in certe alture sassolesi dove le case erano sparse qua e là, o in stradicciole ripide per raggiungere le borgate sui cucuzzoli. Scendevo allora dalla bici e spingevo con tutte le mie forze per arrivare fin lassù e spesso per niente o per vedermi attorniato da curiosi che mi chiedevano come avessi fatto a raggiungerli con quei cassoni.
Speravo di poter un giorno comperare un motofurgone, fare i mercati, e chissà arrivare un giorno ad aprire un negozietto tutto mio.

Gli affari andavano abbastanza bene, qualche cliente veniva anche a casa per comprare, ma inaspettatamente il vicino di casa, proprio quello che abitava dirimpetto al nostro uscio, debuttò insieme alla moglie col mio stesso mestiere e con capitali molto più importanti.
Ebbero quell'idea vedendo che me la cavavo abbastanza bene? Non so. Il fatto fu che ben presto cominciai ad essere sopraffatto dalla loro concorrenza e dalla loro merce più svariata e abbondante. Da loro i clienti avevano più scelta negli acquisti, da me ben poco.
Raddoppiai il chilometraggio nei miei giri, ma manco a farlo apposta i miei itinerari erano anche i loro che, muniti di un camioncino facevano doppia strada senza fatica.
Malgrado i miei sforzi e le faticate sovrumane per la mia età, cominciai ad affondare. Vedevo con terrore arrivare la fine mese, momento in cui mio zio ragioniere mi faceva il bilancio e ne ascoltavo i magri risultati con la morte nel cuore, mentre il nonno che era sempre presente, ascoltava sornione e mi ricordava sghignazzando quanto avesse sempre avuto ragione a diffidare di me.
Man mano che calavano i guadagni si abbassava anche il morale. L'atmosfera in casa si era fatta pesante. Certo la somma iniziale aveva fruttato, ma ignaro di questo, non sapeva far altro che disprezzarne i risultati. Per lui era quella la prova che non si era mai sbagliato nel giudicarmi male.
Liquidai tutta la mia merce, e per non perdere tempo accettai il primo lavoro che mi si presentò. Questo consisteva nell'andare nei campi, a volte anche lontano, per raccogliere erbe medicinali.

Il padrone era un piccoletto dall'aspetto cadaverico, si era appena avviato con quel lavoro e a giudicare dalla foga quasi rabbiosa con la quale lavorava e faceva lavorare, si poteva pensare che le erbe raccolte gli rapportassero bene. La paga che ci dava era però misera.
Viveva in un'unico stanzone al primo piano di una vecchia bicocca con la moglie e tre figli di tenera età. Per entrare in casa sua si doveva salire per una scala di legno sgangherata nel buio più assoluto. Arrivati nello stanzone vi erano sempre a terra mucchi di erbe messe lì a seccare. Tra i mucchi di erbe si scorgevano alcuni mobili che avevano lo stesso colore nerastro dei muri.
Tutto puzzava di fumo e di vecchio. Nella penombra dello stanzone, tra l’immondizia e le erbe viveva la moglie matrona, signora Clarabella. Viveva lì dentro come una leonessa nella sua tana scavalcando i mucchietti di erbe ad ogni suo movimento. Era alta baffuta e secca, sempre vestita di nero, anch'essa di un colore cereo, la replica esatta dell'ambiente in cui viveva.
Al loro servizio tre operai: due fratelli maschio e femmina e un ragazzotto che mi pareva l'unico normale, io ero il nuovo arrivato.
Si cominciava alle sei del mattino a lavorare, fino alle...bè, finché non si finiva. Arrivando al mattino trovavo sempre al lavoro, e a volte, già pieni di sudore, i due fratelli che erano sempre anche gli ultimi a rincasare la sera. Lui, Gino un sempliciotto, lei Emilia, che di donna aveva solo il nome. Non avevo mai visto, ne vidi mai più in seguito una ragazza simile. Lavorava più di tutti, i suoi muscoli erano più evidenti di quelli del fratello. Le mani duramente incallite, la pelle delle gambe e delle braccia continuamente tagliuzzata dalle erbe e dalle spine, i capelli eternamente in battaglia, secchi e pieni di polvere, con le maniche sempre rimboccate lavorava per quattro.
Non cessava di stupirmi la sua energia nel lavoro, la sua foga continua. Non era mai stanca e ci batteva tutti di gran lunga, compreso suo fratello che cercava di imitarla lavorando il doppio di noi che non ci concedevamo un attimo di tregua.
Malgrado la sua giovane età non l'ho mai vista specchiarsi o mettere qualcosa sulle guance inasprite dal vento e dal sole. Mai una volta la vidi pettinarsi, fare insomma un gesto femminile, macché, lavorava come una dannata e basta.
Appena arrivavamo tutti sul posto di lavoro, prendevamo ognuno qualche sacco vuoto e si partiva in bicicletta come pazzi. Lei in testa, curvata sulla sua vecchia bici con le mani riunite al centro del manubrio, cominciava a pedalare a testa bassa come un'ossessa. Noi dietro in fila indiana per ordine: Emilia, Gino suo fratello, Mario il ragazzotto ed io.
Vedendoci passare la gente restava di stucco, tre uomini con tanto di lingua fuori all'inseguimento di una furia di ragazza. Si arrivava così sul posto di lavoro che poteva essere un campo, la riva di un fiume ecc.., sudati e stanchi per cominciare la raccolta delle erbe che potevano essere ortiche, margherite, radici da scavare a seconda della richiesta e delle stagione. La raccolta era un'altra gara di rapidità. I due fratelli ripartivano man mano coi sacchi pieni, li depositavano a casa del padrone e ritornavano in tempi cronometrati. A volte veniva sul posto di lavoro anche il padrone con la sua vespa triruote a caricare. Giunta la sera si rientrava stracarichi di sacchi pieni.
Come facevano a conoscere sempre in anticipo i posti di raccolta non lo so, fatto sta che andavamo sempre a colpo sicuro in posti dov'erano le erbe di comodo. Penso tuttavia che fosse il padrone ad andare in ricognizione, insieme ai due fratelli che certamente passavano le loro domeniche a caccia di erbe.
Il lavoro era durissimo, non in regola. Le ore non si contavano, la paga era magra. Arrivavo a casa a sera tardi esausto, infangato, ma non osavo lamentarmi temendo di aggravare la situazione con i nonni.

Un giorno mi capitò di andare a raccogliere fiori in un boschetto a Baggiovara, da solo. Dopo avere chiesto l'autorizzazione al proprietario che abitava in una villona posta al centro del boschetto, iniziai a lavorare. Poco dopo arrivò il proprietario, un vecchio colonnello in pensione, mi si avvicinò e mi fece una serie di domande: "Quanti anni hai? Di dove sei? Hai famiglia?". Infine mi chiese se volevo lavorare per lui come domestico. Non ci feci troppo caso perché fare il domestico lo ritenevo più degradante che strappare erbe.
Non avrei dovuto riferire ai nonni del colloquio col colonnello, questi presero l'occasione al volo per spingermi ad accettare la proposta assicurandomi che quella era la mia fortuna e ormai non avrei più avuto pace se non avessi accettato.
Fu così che un mattino lasciai la casa dei nonni con un fagottino contenente le mie poche cose per andare a fare il domestico nella villa del colonnello e sua consorte.

Vivevano soli nella grande villa. Lui di origine tedesca si chiamava De Niederhausen, parlava un italiano perfetto. Era piccolo, magrolino e sordo. Avrà avuto circa ottant’anni e mi voleva molto bene. Lei, alta, distinta, sulla settantina e poco entusiasta del mio arrivo. Era la prima volta infatti che assumevano al loro servizio un ragazzo e lei glielo rimproverava perché aveva sempre assunto delle donne che erano più qualificate in quel genere di lavoro. Il colonnello mi difendeva ribadendo che anch'io avrei dato soddisfazione, anche se io ne ero meno sicuro.
Il mio nuovo lavoro consisteva più o meno nel tenere pulite sei o sette stanze, salotti e saloni quotidianamente. Spazzare, spolverare, dare lo spazzolone sui pavimenti ogni mattina, la cera ogni sabato, fare il letto nella loro camera, apparecchiare, servire a tavola, sparecchiare, lavare piatti e tegami, occuparmi delle galline mattino e sera, annaffiare i fiori, ecc...
Dormivo in una bella stanzetta, mangiavo da solo in cucina e accorrevo in sala da pranzo quando suonavano la campanella.
Mi sentivo goffo e mi vergognavo, era veramente un lavoro da donna ma non potevo più tornare indietro. Cominciavo a lavorare alle sei del mattino, finivo verso le dieci di sera. Oltre al vitto e all’ alloggio, ricevevo un salario di ottomila lire mensili che il colonnello si premurava di depositarmeli in banca.
Non avevano l'auto, non uscivano mai. C’era anche "Darli" il cagnolino bassotto che dormiva nella loro stanza e spesso, al mattino si beccava un sacco di sculaccioni perché non voleva capire che non si doveva fare pipì nella stanza dei padroni.
Mi sentivo al pari del "Darli", anzi, forse lui era più in alto nella scala sociale, dal momento che era stato adottato. Lui al mattino si beccava le sculacciate, invece io dovevo spesso subire i rimproveri della moglie, che non aveva mai digerito la mia assunzione e cercava nel mio comportamento il minimo errore per poterlo riferire al marito e mostrargli il suo torto nel persistere a difendere la mia presenza.
La domenica avevo esattamente quattro ore di libertà, le sole della settimana e ne approfittavo per andare al cinema a Formigine.
Nei primi tempi i miei amici venivano ogni domenica da Magreta a prendermi per andare con loro, ma ogni volta dovevo farli aspettare perché dovevo sbrigare un sacco di faccende e non potevo uscire se prima non lasciavo tutto in perfetto ordine.
Finirono per stancarsi di aspettare, così che in breve non venne più nessuno.
Il lavoro non era di mio gradimento, sempre affaccendato, spesso sgridato dalla moglie soprattutto la domenica se rientravo con qualche minuto di ritardo. Io facevo di tutto per non deludere il colonnello che mi era sempre "amico".
Una domenica andai a trovare mio padre che viveva ancora nella borgata dell'Ergastolo di Magreta, in una stanzina al piano terra di un vecchio edificio. I vetri della finestra erano rotti malgrado il freddo invernale. Doveva essere a corto di denaro perché lo sorpresi a lavorare. Mi accolse in malo modo alzando appena la testa per dirmi: “Ah! Sei tu?" E riprese a cucire uno stivale che stringeva tra le ginocchia. Ero deciso a parlargli per la prima volta di me, di lui, di mia sorella.
“Ascolta papà” gli dissi, “perché non ci mettiamo assieme noi tre? Io ormai ho quindici anni, posso trovare un lavoro migliore e guadagnare di più, mentre tu potresti lavorare più assiduamente. Teresa tra poco sarà maestra, potremmo vivere benino in casa nostra, ti rendi conto? Noi tre insieme saremmo finalmente una famiglia e forse, chissà potremmo economizzare un po’ di soldi, abitare in un appartamentino, comprare magari qualche mobile”. Mi interruppi per respirare, mi sentivo eccitato ed estremamente commosso a quell'idea.
Si fermò un attimo di lavorare per guardarmi per poi ricominciare scuotendo il capo: “Ma cosa stai dicendo?” mi disse,” è impossibile". Non capivo perché si ostinava a vivere e a farci vivere in quel modo. Non sapevo cosa dirgli ancora per convincerlo.
Nella sua stanzetta miserabile c’era solo un letto disfatto, un vecchio comò, un comodino e una sedia, vecchie scarpe sparse ovunque, un gran disordine freddo e tristezza. Il restante dei mobili li aveva venduti un po’ per volta. Non ricordo avesse un tavolo, so solo che oltre agli oggetti descritti vi era la vecchia sedia sulla quale sedeva per lavorare e un piccolo banco da lavoro.
Prima di partire feci un ultimo tentativo: “Senti” gli dissi, “ lì dove sono ora non mi va di restarci e non credo che vi resterò a lungo. Dai nonni non torno più, guarda che il giorno che mi stanco me ne vado e non torno più sai?” Continuando a lavorare mi rispose: " Tu partire? Ma dove vuoi andare! ".
Non sapevo più cosa aggiungere. Forse pensava che non fossimo abbastanza grandi per mantenerlo o forse temeva di perdere la sua libertà. Me ne andai deluso.
Che avvenire avrei avuto facendo il domestico? Avrei sempre avuto quelle ottomila lire al mese e sarei sempre stato considerato alla pari di Darli.
L'idea di partire mi prendeva sempre più, mi eccitava e mi intimoriva allo stesso tempo. Disponevo di una certa sommetta depositata in banca in quindici mesi di lavoro. Spesso pensavo che se poi avessi fatto cilecca e fossi stato costretto a ritornare per chiedere la carità ai nonni? No, questo mai, meglio pensarci bene prima, perché una volta deciso sarebbe stato per sempre. La sola cosa che mi dispiaceva era quella di deludere quel caro vecchietto che aveva tanta fiducia in me e per me aveva avuto un sacco di discussioni con la moglie.
Pochi giorni innanzi mi aveva fatto fare una divisa da cameriere con i suoi soldi dato che, le spese se le dividevano meticolosamente. Una divisa che non faceva altro che aumentare in me quel senso di goffaggine per un lavoro di cui mi vergognavo. Partire mi sembrava un tradimento, mi figuravo già la sua faccia delusa e quella trionfante della moglie che finalmente avrebbe avuto la sua rivincita. Pensavo a queste cose facendo ritorno alla villa e non mi ero accorto di essere in ritardo di quindici minuti. La moglie mi aspettava furiosa, le galline non avevano mangiato, la stufa era ancora spenta. Bisognava chiudere tutte le persiane, apparecchiare, e un sacco di altre cose ormai in ritardo insomma. Urlava così forte che il colonnello, malgrado la sua sordità finì col sentire e venne in mio aiuto, sorridente, calmo. Mi prese sottobraccio e guidandomi fuori dalla cucina mi disse che si sarebbe sistemato tutto. Che non era poi tanto grave quel ritardo, e per quella volta avrebbero fatto un'eccezione cenando qualche minuto più tardi. Subito dopo tornò in cucina a calmare la moglie.

Nella loro puntigliosa meticolosità la loro vita era regolare come un perfetto orologio. Tutto era programmato, le spese suddivise e annotate fino al centesimo. Ritardare la cena, seppure di soli dieci minuti, era per loro una eccezione mai fatta per colpa di un domestico. Era ciò che gli rimproverava la moglie che approfittava di ogni occasione per dimostrargli che quello non era un lavoro adatto ad un ragazzo, del resto non aveva torto, anch'io mi sentivo a disagio.
Se l'affetto del colonnello nei miei confronti mi lasciava indeciso circa la mia partenza, il rancore che la moglie mi serbava rianimava in me il desiderio di partire.

Passò così l'inverno. Decisi di partire una domenica di primavera e, presa la decisione mi sentii risollevato, ormai più niente poteva farmi cambiare idea.

Quella domenica svolsi il mio lavoro come al solito. Al pomeriggio andai al cinema solo come del resto era ormai consuetudine. Anche al ritorno svolsi i miei compiti fino alle ventidue e salii nella mia stanzetta lasciando tutto in ordine in cucina. Scrissi una lettera di scuse rivolgendomi soprattutto al Colonnello. Misi nella busta diecimila lire per rimborsarlo della inutile spesa che aveva fatto per comprarmi la divisa da cameriere.
Preparata la valigia, mi avviai pian piano giù per le scale. Ebbi un secondo di esitazione prima di richiudere la porta alle mie spalle pensando che non vi sarei mai più entrato. Inforcai la mia vecchia bici e partii nella notte emozionato per il gesto che stavo compiendo, gesto che nei nostri paesini di campagna era molto insolito, ma al tempo stesso trovavo eccitante il fatto che mi si aprissero tante incognite per il futuro.
In tasca avevo quasi centomila lire, avrei fatto fronte ai primi periodi di carestia e in ogni caso mi sarei dato da fare subito per trovare un lavoro.

Ecco, il gioco era fatto, mi dispiaceva per il colonnello, ma in gioco vi era il mio avvenire e non potevo sacrificarlo in sua riconoscenza, poi c’era la moglie. La notizia della mia partenza non avrebbe certo causato dispiacere ai nonni, che probabilmente avrebbero fatto dire una messa affinché non mi fosse venuta l'idea di ritornare da loro. E nemmeno mio padre. Io e Teresa ci volevamo bene malgrado avessimo sempre vissuto separati e sapevo che anche lei era in difficoltà, ma presto avrebbe ottenuto il diploma di maestra e se la sarebbe cavata. Io non potevo esserle di nessun aiuto.

Era una magnifica notte di fine aprile. Cominciava a albeggiare mentre pedalavo felice verso la stazione ferroviaria di Bologna. Mi sentivo libero dai mille doveri quotidiani, leggero. Per la prima volta il mondo mi sembrava bello. Respiravo a pieni polmoni l'aria fresca della campagna che scivolando dalle mie guance sembrava più profumata. Una sola piccola nube all'orizzonte: Come andrà a finire? Non avevo mai viaggiato.
Il viaggio più lungo che avevo fatto erano quei pochi chilometri nei paesetti vicini o per recarmi a Modena.
La decisione di recarmi alla stazione di Bologna anziché in quella più vicina di Modena era motivata dal fatto che conoscendo la puntigliosa precisione del colonnello, temevo che mi avesse fatto ricercare appunto nella stazione più vicina. Avevo la sensazione di aver giocato un bello scherzo alla vita tetra che mi era destinata , alla sfortuna, alla gente che non mi aveva mai amato. Sentivo una gran voglia di ridere, di cantare. I soldi che possedevo non erano molti ma facendo attenzione a non sperperarli potevano bastare per reggere un buon mesetto e, perbacco, un mese doveva bastarmi per trovarmi un lavoro.
Arrivai alla stazione di Bologna che il sole era già alto, sudato e un po’ stanco. Abbandonai la bici per addentrarmi nella stazione. Incappai subito su un tizio che mi chiamò in disparte mostrandomi un tesserino a cui non feci caso ordinandomi di mostrargli il contenuto della mia valigetta. Mi fece un sacco di domande poi si decise a lasciarmi andare.
Presi il treno per Genova dove per la prima volta entrai in un Hotel, modestissimo ma per me era una reggia.
Inebriato dalla insolita libertà non cercai lavoro subito. Mangiavo nelle trattorie più economiche, gironzolavo permettendomi anche di entrare in qualche cinema senza dover controllare l'orologio ne dover rendere conto a nessuno.
Mangiavo quello che volevo, finché volevo, senza aver addosso gli occhi pieni di rimprovero del nonno o lo scocciante richiamo del campanello. Badavo a non spendere troppo e a far durare il più possibile quei pochi soldi che erano tutta la mia ricchezza. L'improvvisa libertà mi aveva fatto dimenticare i giorni che passavano tanto lieti da non accorgermi che il gruzzolo diminuiva paurosamente, trascurando il fatto che trovare lavoro potesse essere più difficile del previsto.
Mi rimasero ottomila lire in tasca quando iniziai a preoccuparmi seriamente. Ma fu solo il giorno che pagai l'Hotel con le ultime mille lire che iniziai a sentirmi angosciato veramente.

Gironzolando in una piazzetta piena di bancarelle dove vendevano verdure mi feci sfilare le ultime cento lire da una chiromante che sedeva dietro ad un piccolo tavolino e prediceva il futuro con le carte. Mi predisse che prestissimo avrei trovato un lavoro, un lavoro per il quale avrei indossato una divisa. Anche lì non mi sarei fermato per molto tempo, avrei ancora viaggiato, e più tardi avrei indossato una divisa militare, ma non quella italiana. Mi disse inoltre che avrei ereditato una consistente somma da una persona ricca e sola che aveva preso a cuore la mia situazione di orfanello sin da bambino. Infine mi disse che avrei riscosso uno strepitoso successo più avanti negl'anni. Bèh, devo dire che a parte le ultime due, le sue predizioni si avverarono perché girovagando ancora nella piazzetta finii per scontrarmi con una anziana signora carica di borse e borsoni stracolmi di verdure . Mi scusai e mi offersi ad aiutarla e lei accettò volentieri.
Qualche ora più tardi ero assunto come cameriere all'Hotel Select in piazza Fontane Morose di sua proprietà.
L'avevo scampata per un pelo. La paga era buona, l'Hotel era di ottima categoria e il lavoro consisteva strettamente al servizio ai tavoli del ristorante. Mi piaceva malgrado l'attenta sorveglianza dello Chef che come un Generale d'Armata sorvegliava, ordinava e ispezionava il suo piccolo esercito di camerieri e in special modo l'ultimo arrivato, cioè io.
Potevo avere uno spazio in quell'ambiente, ma le mie ambizioni andavano oltre.
A farmi decidere di ripartire e continuare la rischiosa avventura solo un mese dopo, fu una lettera che mi giunse da mia sorella nella quale mi si avvertiva che sarebbe presto venuta a trovarmi con altri amici e parenti.
Non intendevo rischiare, ne rimproveri, neppure sentirmi chiedere di ritornare, perciò mi licenziai e ripartii per Napoli, sperando che la distanza scoraggiasse chiunque dal venire a trovarmi.
Nella grande città era ancor più difficile trovare lavoro e malgrado mi accontentassi di qualche panino mi ritrovai in breve con il portafogli a secco.
Fu gironzolando nei pressi di piazza Garibaldi che a un poliziotto in borghese insospettito forse nel vedere un ragazzo dall'aria un po’ provinciale e smarrita, con una valigia in mano, venne l'idea di chiedermi i documenti, e nel constatare che venivo da fuori ed ero minorenne, mi invitò a seguirlo al commissariato. Per rispondere alle loro domande escogitai la storia di una zia che ero venuto a cercare, ma non funzionò. Mi rinchiusero nel carcere di Poggio Reale in attesa di accertamenti.
In cella mi affiancarono ad un detenuto di mezza età che ormai aveva finito di scontare la sua pena per furto. Con paziente insistenza cercò invano di convincermi a "lavorare" con lui appena usciti. ” Vedi”, mi diceva, “è facile, andiamo alla stazione dei treni, tu ti metti a fianco di una persona che aspetta il treno con la valigia a terra, con un piede me la spingi indietro, io l'acchiappo e sparisco, facile no?” Non voleva capire che non ero il tipo adatto, e insisteva nel dire che in breve ci si fa l'abitudine.
Otto giorni dopo uscivo dal carcere con foglio di via obbligatorio accompagnato da un poliziotto e diretti alla stazione dei treni. Il morale era veramente a terra. Bella figura pensavo, ritornare come un cane bastonato tra le mura ostili della casa dei nonni. Non sapevano quei poliziotti quale umiliazione fosse per me. Avevo cercato invano di spiegargli che mi rimandavano in una casa che non era la mia, che non ne avevo una. Ma quella era ancora il luogo ove avevo la residenza e lì mi rispedivano.
La situazione era critica, non sapevo cosa fare, sapevo solo che non dovevo, non potevo ritornare.
Lì seduto, appoggiato allo schienale del banco in legno della sala d'aspetto della stazione guardavo tristemente l'andirivieni attorno. Per il poliziotto era solo un servizio comune, e ne sembrava un po’ scocciato. All'arrivo del treno mancava ancora parecchio e lui un po’ fumava, un po’ leggeva, sembrava distratto. Io gli ero seduto accanto con la valigetta di cartone tra le gambe.
Il tempo trascorreva lento, dovevano essere circa le ventitré quando passò accanto a noi un suo conoscente. Il poliziotto si alzò per andare a chiacchierare con lui, non era molto distante ma mi girava le spalle. Ad un tratto l'alto parlante della stazione annunciò la partenza di un treno per Reggio Calabria, ebbi un sussulto nel petto, il mio sguardo andò veloce dal poliziotto alla porta vicina, afferrai la valigia avviandomi verso l'uscita. Erano pochi passi ma ad ognuno di essi mi aspettavo l'alt dal poliziotto. Ciò non avvenne, feci appena in tempo a salire sul treno che ormai si stava avviando.
Addio poliziotto, ce l'avevo fatta. Il fatto di essere senza soldi, di andare verso l'incognito, il fatto che non avevo il biglietto per il viaggio erano ben poca cosa in confronto a quello di essere di nuovo libero.
L'avventura continuava, si ricominciava da capo.
Trascorsi la notte in continua sorveglianza per non farmi sorprendere dal controllore, aiutato anche da un signore che, divertito, mi avvisava se intravedeva il controllore.

Arrivato alla stazione di Reggio Calabria, depositai la valigia alla consegna e mi diressi verso la spiaggia. Era una mattinata serena e il sole era caldo. Nella spiaggia non cera nessuno, tranne un signore ai bordi della riva del mare che trascinava un carretto e vendeva fichi d'India. Con le ultime venti lire ne acquistai tre che andai a mangiare seduto sulla sabbia. Vinto dalla stanchezza mi addormentai sul posto e non mi svegliai che al crepuscolo causa un vociferare vicino. Una diecina di pescatori divisi in due gruppi tiravano una lunga rete da pesca verso riva. Erano tutti anziani, con i vecchi pantaloni ripiegati fin sopra le ginocchia scalzi e profondamente segnati in volto dal tempo dall’età avanzata, dal sole e dal vento.
Mi venne una gran voglia di muovermi un po’ così andai a dargli una mano per tirare la rete. Uno di loro, che portava in testa un vecchio berretto di comandante della marina mi parlò in dialetto e vedendo che non capivo mi chiese in italiano: "Da dove salti fuori tu," "Io?”, risposi, “da Modena."“ Da Modica vuoi dire”, “no, proprio da Modena, dissi”. “E cosa sei venuto a fare qui”, “sono venuto in cerca di lavoro", continuai. Si misero tutti a ridere."E tu da Modena vieni qui per lavorare? Ma dimmi un po', continuò lo stesso pescatore, “dove abiti?"“ Bèh “, risposi un po’ impacciato, “per ora dormo qui, sulla sabbia”. Non ridevano più, paravano tra loro e non capivo.
Se ne andarono salutandomi amichevolmente e sulla spiaggia tornò il silenzio.
Era già calata la notte perciò mi rannicchiai nuovamente sulla sabbia per trascorrervi la nottata. Era piuttosto fresco e l'incessante venticello marino attraversava facilmente i miei abiti leggeri.
Avrei dovuto essere preoccupato per la situazione in cui mi trovavo, e un po’ lo ero infatti, ma non più di tanto. Il freddo e lo stomaco vuoto non sminuivano in me il piacere di essere ancora libero e non aver dovuto fare ritorno a Magreta.
Attorno non c’era nessuno e nel silenzio, interrotto solo dal regolare infrangersi delle onde vicine ero solo sotto quel manto stellato, cullato dai miei pensieri.
Passai la notte in un dormiveglia continuo, solo al mattino il sole tornò a riscaldarmi.
Verso le dieci uno dei pescatori della sera precedente ritornò e dopo essersi informato di come avevo passato la notte, mi porse mezzo filone di pane ancora caldo con dentro olio d'oliva e sale. Lo accettai con gratitudine e lo divorai con buon appetito. Mi disse di restare nei paraggi siccome avrebbe chiesto ad una certa persona se poteva occuparsi del mio caso.
Si trattava dello stesso che la sera precedente mi aveva fatto tante domande, un certo don Ciccillo, ma per tutti era il Capitano.
Verso sera i pescatori ritornarono, ormai eravamo amici; mi chiamarono chiedendomi di aiutarli a tirare la rete, cosa che feci volentieri. Quando la rete fu a riva, il Capitano mi disse che per quella notte potevo dormire in una baracca sulla spiaggia dove egli teneva tutta l'attrezzatura per la pesca. Dentro la baracca vi era del pane, dell’olio e del sale di cui potevo servirmi ed una vela con cui coprirmi durante la notte. Prima di andarsene mi raccomandò di avere pazienza ancora un po’ dato che quel signore con il quale aveva parlato si sarebbe occupato di me appena possibile. Gli ero molto riconoscente, senza il suo aiuto non so come sarebbe finita. Restavo lì ,sulla spiaggia in attesa degli eventi. Non osavo recarmi in città, anche se era a due passi , nel timore che si ripetesse l'avventura di Napoli.
Passai una nottata migliore. Il mattino seguente non si fece vivo nessuno, ma nel pomeriggio una grossa barca a motore puntò dritta verso la spiaggia fino ad arrivare con la prua sulla sabbia nel punto in cui mi trovavo. Sopra vi erano una diecina di persone di tutte le età. La radio di bordo a tutto volume trasmetteva canzoni locali nel chiassoso cantare e ridere dell'equipaggio. Uno di loro rivolgendosi a me gridò: "Oeh!, sei tu il nordista?”, ”Si”, risposi. "Alè, sali a bordo allora".
Non me lo feci ripetere. Poco dopo ci trovammo tutti in una grande rimessa ai bordi della spiaggia seduti attorno ad una tavolata guarnita di cibo e bevande di ogni genere.
Vi erano tutti i pescatori ormai di mia conoscenza, più altri che non conoscevo affatto. Seduto a fianco del Capitano non mi facevo pregare per servirmi.
Tutti mi facevano domande, tutti volevano sapere, non era mai successo prima che uno del nord si fosse trovato nei loro paraggi in cerca di lavoro e che fosse così malconcio.
Io rispondevo tra un boccone e l'altro senza tuttavia entrare troppo nei particolari.
Si mangiò in grande allegria, dopo di ché uno ad uno se ne andarono lasciandomi solo col padrone, un certo Franco Cortese detto don Ciccio.
Era un uomo sulla quarantina, capelli corti e ricci, l’aria spavalda. Don Ciccio si sedette confortevolmente in una poltrona accanto a me dicendo: "Se vuoi lavorare puoi restare con me, io faccio del trasporto tra Messina e Reggio; potresti venire con noi e di notte avresti un letto qui nel deposito, così mi faresti anche la guardia. Io ti posso dare solo vitto e alloggio,
ti va? ". Accettai riconoscente. Per il momento non chiedevo altro, in seguito avrei valutato. Restammo assieme per un po’ chiacchierando mentre non smetteva di fumare. Dopo di ché se ne andò lasciandomi solo nel deposito.
Seppi solo in seguito che il trasporto in questione era una specie di contrabbando. Aveva una quindicina di barche e barconi a motore che figuravano essere continuamente in mare per pescare, mentre in realtà restavano immobili sulla spiaggia. A Messina acquistava benzina che il Governo vendeva ai soli pescatori per una cifra che si aggirava attorno alle trenta lire al litro e lui ne poteva avere circa milleduecento litri al giorno. La portava nel deposito e la sera veniva un camioncino a caricarla per venderla privatamente a ottantacinque lire al litro. Lavoro semplice e molto remunerativo.
Così che cominciò per me la nuova vita.

Partivamo al mattino presto con una barca sempre diversa piena di fusti vuoti da duecento litri e facevamo il pieno nel porto di Messina. Di ritorno verso mezzogiorno, tiravamo la barca a secco e dopo averla scaricata facevamo ruzzolare i fusti nel deposito poco lontano dove dormivo.
Don Ciccio mi aveva consegnato una pistola con la quale mi aveva insegnato a sparare dicendomi di tirare su chiunque cercasse di entrare di notte. Con me vi era anche un grosso cane lupo per assistermi. La notte mi avvolgevo in una vela che portavamo con noi al mattino per coprire i fusti e quando il mare era mosso si inzuppava di acqua. Tutto sommato quella vita non mi dispiaceva.

Il mare era per me una novità e una continua fonte di meravigliose di sorprese.
A volte nello Stretto, specie col mare liscio, raccoglievamo delle bottiglie galleggianti lanciate da marinai di passaggio su navi di ogni nazionalità. Le lanciavano affidandole alla sorte con dentro delle lettere da imbucare e il relativo compenso in danaro, sigarette o cioccolato. Le gettavano transitando per lo Stretto sapendo che in quel punto passavano molti pescatori.
Stappando le bottiglie, i pescatori ne esaminavano il contenuto compiaciuti o borbottando quando la mancia non era adeguata, come fosse stato un tacito accordo a cui non mancavano mai, in ogni caso di venire meno al doveroso impegno di imbucare la posta.
A volte invece, passava vicino alla nostra barca un branco di delfini che sbuffando seguivano la loro strada sporgendo dall'acqua il dorso nerastro. I pesci volanti, che a volte finivano dentro la barca, o i branchi di tonni o "pesantoni", come li chiamavano loro, o ancora enormi branchi di sardine che improvvisamente saltavano fuori dall'acqua. Io ero il beniamino del capitano il quale mi segnalava divertito ogni avvistamento e soddisfaceva con pazienza ogni mia curiosità.
Ma non andava sempre tutto così liscio. A volte facevamo la traversata con "scirocco a levante" e il mare diveniva pericoloso. Onde gigantesche si sollevavano allora in un turbinio di schiuma che toglieva ogni visibilità.
La traversata che normalmente durava un'ora diveniva interminabile e la gita piacevole si trasformava in un'avventura pericolosa.
Il mare in quei momenti si trasformava in una montagna liquida nella quale si era a volte sprofondati in un abisso, altre su una cima circondata da burroni la prua si alzava minacciosa sulle nostre teste rischiando di rovesciarci i fusti addosso. L'acqua entrava dappertutto e non bastavano due persone per buttarla fuori con dei secchi, stando ben attenti a non finire in mare.
A bordo si era generalmente in quattro: Io, il motorista, il mio amico Capitano e un marinaio, Renato. In quei momenti c'era lavoro per tutti. Il motorista accanto al motore per rallentare o accelerare a secondo dell'ondata che ci veniva incontro e attento che il motore allagato non si spegnesse. Il Capitano era seduto a poppa, saldamente aggrappato alla spranga del timone con la quale cercava di prendere di prua le ondate più grosse, io e Renato a buttare fuori acqua.
Ci si affannava coi nervi tesi e in silenzio, siccome l'urlo del vento e il frastuono delle onde avrebbero coperto le nostre voci, ognuno al suo posto. I pochi ordini necessari in casi imprevisti li dava il Capitano urlando a squarciagola.
In quei terribili momenti mi pareva a volte di percepire un tremolio di labbra nei volti sbiancati. Era difficile dire se si trattava di un fatto nervoso o se pregassero qualche santo locale, come era difficile sapere se sui volti bagnati scorresse qualche lacrima.
Da parte mia, ero sorretto da un'incoscienza del pericolo che oggi mi spaventa, convinto com'ero che la barca non potesse affondare anche in caso si fosse rovesciata. Pensavo che alla peggio avrei fatto un lungo bagno aggrappato al legname, tanto sono ero già bagnato fradicio. Non che mi divertissi, ma credo che in quei momenti fossi il meno agitato.
Proprio durante una di quelle bufere Renato scivolando sul ponte cadde in acqua. Per un po’ vedevamo a tratti la sua testa emergere tra i flutti appannati delle schiumose cime d'acqua, ma in breve scomparve. Il Capitano tirò a se la sbarra del timone con tutta la sua forza per costringere la barca a virare, ma la sbarra si ruppe cadendo anch'essa in mare mentre continuavamo ad allontanarci dal punto in cui era caduto Renato. A bordo regnava un totale scompiglio, io cercavo tra le onde spumeggianti di vedere l'infortunato marinaio ma non si vedeva oltre una ventina di metri, mentre la barca era sballottata da ogni parte.
Il timone reso inutile, il Capitano si servì di un remo per virare con un largo cerchio. Ritornammo sui nostri passi col motore a rilento ma Renato non si vedeva più. Continuammo ad avanzare adagio col cuore in gola scrutando attentamente i dintorni ogni qualvolta che ci trovavamo in cima ad una piramide di acqua, ma inutilmente. Quando sembrava ormai una vana ricerca, ecco apparire Renato in cima ad una gigantesca onda quasi al di sopra di noi, tirato a bordo lo abbracciammo tutti.

Don Ciccio mi trattava bene, era spesso ubriaco e comunque un personaggio strano. Alcuni momenti era buono e premuroso, ma per un nonnulla diveniva collerico e violento, soprattutto quando aveva bevuto e in modo particolare con le concubine che accettavano di convivere con lui. Le trattava a volte da gran dame, oppure le picchiava umigliandole brutalmente anche in pubblico.
Cambiava spesso donna, le sceglieva sempre giovani e belle. Non mi spiegavo il fatto che seducesse tante ragazze per poi mollarle quando credeva in un ambiente dove è così rigida la legge dell'onore, probabilmente i soldi rappacificano molte coscienze.
Con me come con i suoi dipendenti invece era solitamente corretto.

Una sera andai a dormire nel mio lettino da campo come il solito. Mi svegliai scorgendo attorno al mio letto diverse persone in camice bianco che mi fasciavano come una mummia. Volevo chiedere cosa fosse successo ma al solo gesto di parlare un grande pizzicore alla gola mi convinse a non insistere.
Intanto mi ponevo mille questioni: "Ma cosa è successo? Sto forse sognando? Ma perché mi stanno fasciando così?". Guardandomi attorno scorsi il viso sorridente di Don Ciccio, e allora mi resi conto di essere ben sveglio.
Quando medici e infermieri se ne furono andati, Don Ciccio prese una sedia e si accostò al letto. Con uno sforzo riuscì a chiedergli: "Ma dove sono?", "All'ospedale, stai calmo" rispose. “Ma cosa mi è successo?" Bèh, mi disse, probabilmente ieri sera non ti sei accorto che uno dei fusti di benzina nella tua stanza perdeva e durante la notte si è sparsa sul pavimento fino ad essercene a terra tre o quattro centimetri. Probabilmente sentendo i gas che ti soffocavano ti sei alzato per aprire la finestra ma sei svenuto senza esservi riuscito. Questa mattina presto entrando ti ho trovato disteso sul dorso in mezzo alla stanza.
Io non mi ricordavo di niente. Avevo bruciature sul dorso e nei fianchi di secondo grado, la pelle mi si staccava dalla schiena come la buccia di una banana, ma non sentivo dolore.
“Ascolta”, mi disse Don Ciccio prima di andarsene “ verrà certamente la polizia per interrogarti, devi dir loro che nella stanza vi era solo un piccolo fusto da cinquanta litri e che non ti sei accorto che perdeva, hai capito?”. Feci cenno di si con la testa. Infatti la polizia non tardò a venire e m'interrogò a lungo, io mantenni sempre quella versione.

Ripreso a navigare dopo non molto, successe un'altro fatto. Nel porto di Messina, avevamo appena completato il carico di sei fusti da duecento litri di benzina quando ci staccammo dalla panchina per avviarci a Reggio. Quel giorno avevamo la barca più piccola, la "Palamatara", il motorista cercava di avviare il motore ma questo scoppiettava un po’ poi si fermava. Ad un centinaio di metri dalla panchina un ritorno di fiamma del carburatore provocò un incendio. Il fuoco avvolse in breve il serbatoio che perdeva rispandendo la benzina fin sotto ai fusti. Cercammo di spegnere l’incendio con degli stracci, ma questi, sporchi di olio si infiammavano a loro volta. Il serbatoio cominciava a gonfiarsi spruzzando fuori la benzina infiammata e le fiamme finirono per avvolgere interamente i fusti. Si buttò a mare prima il motorista seguito da Renato, infine il Capitano.
Rimasto solo a bordo cercavo disperatamente di soffocare le fiamme con un telone che serviva per coprire i fusti, ma non sapevo quali coprire perché ormai questi erano tutti attorniati dal fuoco. Da un secondo all’altro poteva saltare tutto in aria e il mio tentativo di spegnere le fiamme diveniva impossibile. Sulla panchina intanto diecine di persone accorse urlavano che mi buttassi a mare, ma continuavo cocciutamente nel mio tentativo sin quando, uno scatto delle pareti del serbatoio mi fece capire che per la pressione interna, stava per scoppiare. Mi buttai anch'io e quando raggiunsi la panchina una vedetta dei pompieri era già giunta sul posto e con grossi getti di un liquido giallastro annegarono il tutto.

Era già trascorso più di un anno e a Reggio mi ero fatta la residenza, capivo ormai bene il dialetto e tra loro mi sentivo a mio agio. Quella gente rude e povera aveva un gran cuore e da loro ero ormai accettato. Il clima mite, il mare, la pesca, la navigazione, tutto mi piaceva. Inoltre avevo il mio grande amico, il Capitano che al mattino veniva con noi a Messina; nel pomeriggio lo accompagnavo a pescare e ad ogni retata mi mostrava i pesci meno comuni e mi raccontava di loro ciò che sapeva. Le loro abitudini, i loro cibi preferiti, le loro zone abituali e tante cose sulla pesca e sui pesci che io ascoltavo sempre con molto interesse. Un giorno mi disse che dopo tanti anni di matrimonio non aveva mai avuto figli, se avessi voluto restare con lui mi avrebbe accettato volentieri.
Ero commosso e imbarazzato ma non potevo orientare il mio avvenire a quella vita che accettavo solo come un momentaneo passaggio.
Non scorderò mai quella sosta, nemmeno il Capitano e il mare con la sua incantevole placidità o la sua spaventosa collera, proprio come Don Ciccio.
Da tanti fatti, una cosa avevo imparato, che al di là di Modena non finisce il mondo, come credono coloro che lì nascono, lì vivono e lì muoiono. Al di là vi sono tante cose da conoscere belle e brutte, ma in una intera vita vale la pena di conoscerle.
Vi erano giorni in cui dalla spiaggia si vedevano enormi branchi di alici saltare fuori dall'acqua come ubbidendo ad un'ordine improvviso, una diecina di pescatori con il Capitano in testa si precipitavano alle barche e si dirigevano in fretta muniti degli appositi filetti, verso il luogo dove lampeggiavano al sole a migliaia i piccoli ventri bianchi che apparivano e scomparivano a turno in spazi di centinaia di metri. La spiaggia si popolava allora di curiosi e parenti che urlavano e gesticolavano per dirigere i pescatori verso il centro del branco. Al loro ritorno con le barche cariche di pesce era festa per tutti.

Sì, quella vita mi piaceva ma non potevo restare in eterno visto anche che soldi non ne guadagnavo, perciò decisi di ripartire.
Il Capitano, sempre lui, mi diede l'indirizzo di uno dei suoi cugini che abitava a Torino e faceva il commerciante, dicendomi di rivolgermi a lui da parte sua che certamente mi avrebbe ospitato per un po’ e magari mi avrebbe ambientato nel suo commercio. Lo ringraziai, salutai tutti e presi il treno per Torino con biglietto pagato da Don Ciccio.

Il cugino, un certo Orazio era sposato con due figli. Viveva in un appartamentino in periferia. Mi accolse un po’ sorpreso ma con gentilezza. Passai la notte da lui e al mattino seguente mi portò con se per inserirmi nel suo mestiere.
Ci recammo in vespa a Porta Palazzo dove c’erano diecine di altri suoi compaesani che vendevano sigarette. Aspettavo di ripartire con lui per recarci in qualche negozio di sua proprietà, invece lo vidi tirare fuori dal giubbotto alcuni pacchetti di "estere" e offrirle ai passanti. Capii solo allora che quello era il suo mestiere. Ne fui deluso ma ero certo che il Capitano era in buona fede credendolo commerciante. Guardai per un po’ la scena osservando quei meridionali, una ventina, scorrazzare per la piazza e gareggiare a chi arrivava per primo da un nuovo passante per offrirgli la merce. Non passò mezz'ora che Orazio mi si avvicinò dicendomi di darmi da fare dato che ormai avevo capito l'antifona, così dicendo mi allungò tre stecche di svizzere raccomandandomi di rifornirmi da lui appena queste le avevo vendute.

Quel lavoro proprio non mi andava, ma cosa potevo fare? Fui io a chiedergli aiuto e lui mi aiutava del suo meglio, poi dovevo provvedere a cavarmela da solo e togliergli il disturbo al più presto perciò, presi come si dice il coraggio a due mani e cominciai a darmi da fare. I colleghi erano più smaliziati di quanto lo fossi io, e ogni volta che mi avvicinavo ad un passante una nuvola di colleghi mi sorpassava soffiandomelo. Imparai presto iniziando il mestiere di "commerciante". Orazio era il mio grossista, mi forniva la merce lasciandomi una provvigione.
I guadagni non erano comunque elevati e sempre incerti. Nel " 54 a Torino non era facile trovare lavoro, io non avevo la residenza, perciò tiravo a campare vivacchiando in quella piazza. Dormivo in una vecchia locanda che paradossalmente si chiamava Locanda Del Sole, ma più che sole vi erano cimici e scarafaggi. I clienti erano tutti meridionali molti dei quali contrabbandieri, suddivisi in diversi cameroni , in ognuno dei quali ci si stava in una trentina.
Nella piazza i veterani del mestiere avevano una postazione fissa, o un angolazione dalla quale aspettare i passanti ed eventuali clienti, tale angolazione però non aveva dei limiti ben precisi e, se l'eventuale cliente arrivava al confine tra due angolazione, il più veloce si accaparrava il passante e questo non avveniva senza frequenti liti, in particolar modo nelle angolature della piazza occupate dagl'ultimi arrivati.
Come se la penuria dei guadagni e le liti non bastassero, vi erano le frequenti retate della Finanza che arrivava di tanto in tanto all'improvviso con uomini e mezzi, perquisendo e rincorrendo chi tentava di scappare.
I guadagni, specie per i novizi come me, consentivano solo le spese indispensabili per dormire e un piatto di minestra o tante volte un panino. Quando poi il magro bottino di "estere" veniva sequestrato dalla Finanza si scendeva a debito coi fornitori.
Io mi ero già fatto beccare tre volte e in questo modo non poteva continuare.
Fu così che chiacchierando un giorno con Tino, un collega calabrese, decidemmo di cambiare vita tentando di raggiungere la Francia.

Partimmo alle cinque del mattino a piedi da Bardonecchia e ci inoltrammo su per le Alpi dove trovammo una pista da seguire tra i monti verso la frontiera, una pista ben visibile da principio , che andava poi via via rimpicciolendosi fino a scomparire per lunghi tratti. Solo qualche freccia sui massi appariva di tanto in tanto per indicarci la direzione da seguire. A volte però sparivano anche queste costringendoci a proseguire alla cieca. I monti si susseguivano sempre più in alto e nel contornarli si rischiava di perdere l'orientamento. Solo verso le tre del pomeriggio arrivammo in vista di una baracca di legno e di qualche filo spinato teso alla meglio e nascosto tra le lunghe erbacee. Quella doveva essere la frontiera. Entrammo nella baracca qualche instante per riposarci siccome la stanchezza e la sete ci avevano spossati, senza tuttavia attardarci temendo di incappare in qualche pattuglia.
Prima di varcare il reticolato e calpestare il suolo francese mi voltai per abbracciare con un'ultimo sguardo il cielo e i monti nostrani che mi sembravano più amici.
Marciammo ancora per ore e ore, scendendo senza trovare nessun segno di vita. Ero stanco e Tino più di me, gli portavo la valigia e lo stimolavo del mio meglio dicendogli che, arrivati a Modane saremmo entrati subito in un ristorantino a rifocillarci, ma non si arrivava mai. Le nostre gambe erano diventate pesanti e la sete ci torturava.
Trovammo finalmente una stradicciola alla vista della quale ci rincuorammo, poi una casa dove entrammo per chiedere da bere.
Solo alle dieci di sera arrivammo a Modane, stanchissimi ma contenti di avercela fatta. I ristoranti a quell'ora erano chiusi e, vinti dalla stanchezza non continuammo a cercare, ne un ristorante tantomeno un Hotel. Entrammo nella stazione ferroviaria per riposarci, e lì ci addormentammo.